Simone Weil e il Padre Nostro

Fino al settembre scorso non mi era mai capitato in vita mia di pregare, neppure una volta, almeno nel senso letterale della parola. Mai avevo rivolto la parola a Dio, nè a voce alta nè mentalmente. Mai avevo pronunciato una preghiera liturgica. Mi era capitato talvolta di recitare la Salve Regina, ma soltanto cone una bella poesia.

L’estate scorsa, quando studiavo greco con T., avevo fatto per lui una traduzione letterale del Padre nostro in greco. Ci eravamo ripromessi di studiarlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto, e neppure io in quel momento. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che poiché me l’ero ripromesso ed era una buona cosa, dovevo farlo. E l’ho fatto. La dolcezza infinita del testo greco mi prese a tal punto che per alcuni giorni non potei fare a meno di recitarlo fra me continuamente. Una settimana dopo cominciò la vendemmia, ed io recitai il Padre nostro in greco ogni giorno prima del lavoro, e spesso lo ripetevo nella vigna.

Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina con attenzione totale. Se mentre lo recito la mia attenzione si svia o si assopisce, anche solo un poco, ricomincio daccapo sino a quando non arrivo a un’attenzione assolutamente pura. Mi accade talvolta di ripeterlo una seconda volta per puro piacere, ma lo faccio solo se il desiderio mi spinge.

Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo sperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa.

Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dallo spazio, dove non esiste nè prospettiva nè punto di vista. Lo spazio si apre.  L’infinità dello spazio ordinario della percezione viene sostituita da un’infinità alla seconda e talvolta alla terza potenza. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori, se ve ne sono, mi pervengono solo dopo avere attraversato questo silenzio.

Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa.

Non mi sarei mai risolta a dirvi tutto questo, se non stessi per partire. E poiché in fondo parto con il pernsiero di una morte probabile, mi sembra di non avere diritto di tacere queste cose. Poiché, dopotutto, non si tratta di me: si tratta solo di Dio, io non c’entro per nulla. Se si potesse supporre che Dio può sbagliare, direi che tutto ciò è capitato a me per errore. Ma forse Dio si compiace di utilizzare le scorie, gli scarti, i rifiuti.

[Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi 1972, pag 45-46]

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