Laurea Honoris causa a Cucinelli

 

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA

LAUREA HONORIS CAUSA

Perugia – Giovedì 11 novembre 2010 – ore 11.00

Palazzo Murena – Aula Magna, Piazza dell’Università 1

Laurea magistrale honoris causa

in Filosofia ed Etica delle relazioni

Cavaliere del Lavoro

Brunello Cucinelli

 

Lectio Doctoralis

 

“La Dignità come forma dello Spirito”

 

 

Laudatio

 

Brunello Cucinelli nasce a Castel Rigone (Perugia) nel 1953. Conseguito il diploma di geometra si iscrive alla Facoltà di Ingegneria, che però frequenta per poco tempo. Iniziata la carriera di imprenditore, si è subito imposto proponendo la novità del cashmere colorato. Nel 1982 si unisce in matrimonio a Federica Benda, dalla quale avrà due figlie. Trasferitosi a Solomeo, acquista per l’azienda il castello trecentesco, dove, nel 1987, inaugura la nuova sede. In virtù anche di una forte sensibilità umanistica, inizia l’attività di recupero e di riqualificazione dell’antico borgo, dove realizza spazi dedicati all’incontro e alla cultura. Per rispondere all’ideale rinascimentale di bellezza, fa realizzare un complesso architettonico e paesaggistico, denominato Foro delle Arti, dove trovano ubicazione un suggestivo Teatro, un invitante anfiteatro e una prestigiosa Accademia Neoumanistica impreziosita da una ricca biblioteca. Nello stesso periodo, le sue collezioni, riconosciute a livello mondiale come uno dei più importanti brand nel settore del lusso, conquistano i più importanti paesi d’Occidente e d’Oriente, ottenendo unanimi consensi. Non per questo ha distolto lo sguardo dalla sua regione d’origine; anzi se ne è occupato con grande impegno, ricoprendo vari incarichi, tra cui quello di Presidente del Teatro Stabile dell’Umbria, e contribuendo efficacemente alla diffusione della cultura. In considerazione dei suoi indiscussi meriti, rivolgo cortese istanza al Magnifico Rettore, al Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e ai colleghi componenti la Commissione, affinché conferiscano a Brunello Cucinelli la laurea honoris causa in Filosofia ed Etica delle relazioni con la seguente motivazione: Imprenditore di grande successo, ha ottenuto i più prestigiosi riconoscimenti sia in Italia che all’estero. In virtù della comunione spirituale con i grandi del passato, ha restituito sagacemente il Borgo di Solomeo al suo antico splendore, realizzando un’impresa ispirata ai grandi valori morali e civili che hanno segnato la storia dell’umanità. L’uomo, infatti, costituisce il centro focale e il termine di riferimento della sua attività. Quello a cui Cucinelli guarda, però, non è l’homo faber, proteso esclusivamente a raggiungere il profitto, ma l’homo sapiens impegnato a realizzare la propria identità. Recuperato nel volume totale delle sue potenzialità, quest’ultimo è valorizzato nella sua intelligenza e nella sua capacità creativa, oltre che nella disponibilità con cui si apre agli altri e concorre alla realizzazione del bene comune. È questa la visione filosofica cui si ispira l’azione produttiva di Cucinelli. La sua azienda pertanto, poiché è concepita in funzione di un umanesimo integrale, è riuscita a stabilire un giusto rapporto tra l’economia e l’etica, tra l’utile e il rispetto della dignità del lavoratore. Al tempo stesso, siccome fa della bellezza uno strumento di elevazione dello spirito e di riscatto dei rapporti umani dalla mercificazione, ha reintegrato l’uomo nella natura, facendone il suo custode privilegiato. Coniugando infine il gusto estetico con la valorizzazione dell’ambiente, ha dimostrato come il capitalismo, quando è opportunamente guidato, può assumere un volto umano e costituire un veicolo per favorire il rispetto reciproco e la pacifica convivenza.

 

Prof. Antonio Pieretti

 

Lectio Doctoralis

 

Magnifico Rettore, Presidi, Professori e Autorità, amici che con la vostra presenza completate la felicità di questo giorno, Vi ringrazio di cuore. Questa lectio doctoralis è l’occasione da me più desiderata per esprimere la gratitudine verso chi mi onora di così ambito riconoscimento e per testimoniare il genuino amore che nutro per la vita in ogni sua forma. Sono convinto che in ogni epoca storica e in ogni parte del mondo le università siano state e saranno sempre il sale della terra. L’Università degli di Perugia, che è una delle più antiche e prestigiose, mi offre oggi una straordinaria occasione, che mi lusinga e mi appare ricca di opportunità bellissime. Della mia infanzia conservo un grande ricordo: non ho mai visto i miei genitori litigare. Mi è sempre presente l’immagine di mio padre, dei miei nonni e dei miei zii, uomini impegnati in un lavoro faticoso e spesso ingrato, i quali pregavano Iddio perché mandasse bel tempo, affinché il raccolto non fosse rovinato. Il loro esempio ha rappresentato per me un’esperienza indimenticabile cui tuttora ispiro la mia vita. Poi, quando avevo circa quindici anni, ci trasferimmo in città, perché mio padre lasciò la campagna e si dedicò a un altro lavoro. Vedere il proprio figlio lavorare in fabbrica anziché nei campi era stato il sogno più grande di mio nonno. Anche come operaio mio padre aveva a che fare con un lavoro faticoso, ma era soddisfatto del nuovo impegno. A volte, però, la sera lo vedevo tornare silenzioso e dispiaciuto, perché durante la giornata aveva subito umiliazioni, talora perfino delle offese da parte del datore di lavoro. Sebbene non riuscissi a capire fino in fondo quale messaggio fosse riposto in questo suo stato d’animo, tuttavia mi indusse a riflettere. Qualcosa cambiò dentro di me. Ero triste nel vedere mio padre in quelle condizioni e, probabilmente, allora ho cominciato a comprendere quale importanza rivestisse l’uomo nell’attività lavorativa. Mi sono reso conto, per esperienza diretta, quanto fosse ingiusto offenderne la dignità e non riconoscergli il valore che gli spetta. Dai quindici ai venticinque anni ho frequentato la scuola e mi sono diplomato geometra. Devo ammettere però che non ho studiato molto, perché non ero sufficientemente motivato e non provavo soddisfazione nel faticare sui libri. Ho comunque superato gli esami di maturità e poi mi sono iscritto all’Università, alla Facoltà di Ingegneria. Ho frequentato le lezioni per circa tre anni, durante i quali, però, ho dato un solo esame, quello di Geometria descrittiva. In queste poche annotazioni si condensa la mia esperienza di studente. L’evento più importante di quel periodo, ma anche di quelli successivi, fu l’incontro con la donna che poi sarebbe diventata mia moglie: avevamo entrambi circa diciassette anni; lei aveva finito gli studi di ragioneria e si decise ad aprire un piccolo negozio di abbigliamento. In qualche modo, fu proprio seguendola in questa esperienza che riscoprii il gusto del bello e cominciai ad apprezzare la moda. Molto importante, in quel periodo, è stata la vita del bar, del caffè italiano, che ho frequentato quasi quotidianamente e al quale mi sono sempre più affezionato. Era lì che ci ritrovavamo la sera, settanta-ottanta persone, solo uomini, secondo la cultura del tempo, e dove si incontravano praticamente tutte le classi sociali, in rapporto di amicizia e di reciproco rispetto, senza barriere e senza pregiudizi. Vi partecipavano gli industriali, gli operai e… i nullafacenti come me (confesso di essere stato tale). Era ben più che un semplice modo di passare il tempo, perché si stava insieme discutendo dei problemi più svariati e impegnandoci in un dibattito che non vedeva interruzioni. Sembrava che, in piccolo, riproducessimo le condizioni di quel dibattito tanto caro a Eraclito, quando parla di Polemos come maestro e signore di tutte le cose: tutto si genera dal confronto vivace e intenso, purché fatto con garbo e con moderazione. Sono questi i miei ricordi, di un divertimento che è anche di apprendimento, un apprendimento di vita, diverso da quello della scuola, vivo, desiderato, autentico. Già dall’età di diciannove anni ho iniziato a leggere qualche cosa. Devo dire la verità: nonostante il genere di vita che allora conducevo, era presente in me il desiderio, la voglia di conoscere di più quella dignità che mi era sembrata tanto importante, quando era stata offesa in mio padre. Pensai così di poter trovare qualche risposta ai miei interrogativi nella filosofia. Fu allora che mi avvicinai al mondo del sapere e Kant fu il primo che lessi, con timore e con avidità. Una lettura difficile, ma piena di umane verità. Ricordo un’annotazione che trovai molto suggestiva e straordinariamente vera, quella in cui Kant dice: «Due cose mi emozionano in un modo particolare: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». In questa ho ritrovato gli ammonimenti di mio padre, quando a casa mi diceva spesso: «Devi essere una persona perbene. Mi raccomando, cerca di mantenere la parola che hai dato». Ma se la lettura di Kant, per un verso, soddisfaceva i miei interrogativi, per un altro ne faceva nascere continuamente di nuovi, aumentando sempre il mio desidero di conoscenza. Da qui si è consolidato il mio amore per la filosofia, che mi ha accompagnato fino ad oggi e tuttora dura. Mi sono messo subito alla ricerca delle idee dei grandi filosofi greci: Socrate, Platone, Aristotele. Nel frattempo gli anni passavano e cominciavo a pensare cosa avrei fatto nella vita. È così che, frequentando la mia fidanzata e il suo negozio, ho cominciato ad appassionarmi alla maglieria, che allora come oggi è un segno distintivo della cultura umbra. Maturai così l’idea di realizzare pullover di cashmere colorati, e devo dire che, sotto il profilo del prodotto, si trattò di una piccola innovazione. Il sogno della mia vita, tuttavia, era quello di rendere l’attività lavorativa più umana, di dare dignità morale ed economica al lavoro, perché, credetemi, il lavoro spesso è piuttosto duro e ripetitivo. Ero però anche convinto che esso eleva la dignità dell’uomo. E di questo obiettivo ho fatto il vero scopo della mia vita. Così, pur aspirando a ottenere profitti, perché credo nel capitalismo (ogni impresa deve produrre profitti, perché è la ragione della sua esistenza), al tempo stesso volevo che tali profitti non arrecassero mai danni all’umanità, o il meno possibile. Mi ripromettevo, per metodo e per finalità, che i profitti fossero realizzati nel rispetto della dignità e del valore della persona umana, e perciò che fossero orientati a uno scopo morale. Aristotele considera l’etica come la parte superiore della filosofia e proprio in tal senso volevo agire. Non sapevo se vi sarei riuscito, ma mi impegnavo ad operare in questa direzione con tutte le mie forze. Questo è lo spirito, questo è l’intento del mio lavoro. Per mettere in pratica quanto mi ero ripromesso, decisi di ripartire i profitti secondo quattro criteri, ai quali tuttora mi attengo. La prima parte è destinata all’impresa, a quell’impresa di cui io mi sento custode e non proprietario. Sì, ne sono il maggior azionista e il responsabile, ma unicamente nel senso di garantirgli solidità e stabilità. Ho sempre immaginato che, se ci si sente custodi e non proprietari, allora tutto assume un significato diverso, tutto diventa quasi eterno. La seconda è riservata alla mia famiglia, che vive in un piccolo paese e, pertanto, non ha necessità particolari. La terza, quella più importante, va ai ragazzi che mi aiutano nell’impresa, perché possano lavorare in un modo migliore e vivere in maniera conforme alle loro attese. La quarta, che ha altrettanta rilevanza delle prime tre, è la parte destinata ad “abbellire il mondo”, un concetto che può riguardare qualsiasi tipo di iniziativa: aiutare qualcuno in difficoltà, ma anche restaurare una chiesa, costruireun ospedale, un asilo, un teatro, una biblioteca… E qui devo dire che mi ha ispirato la grandezza di mente di uno dei miei maestri, l’imperatore Adriano, quando dice: «Mi sento responsabile delle bellezze del mondo». Questa è la filosofia di fondo dell’impresa. Volevo dar vita a un prodotto di grande artigianalità, di grande qualità e, spero, anche di autentica creatività. Volevo costruire un manufatto in cui fosse trasferito il modo italiano di vivere e di lavorare, la sua fierezza, tolleranza, dedizione, spiritualità e misticità. Per far questo, senza dubbio, sono necessarie mani sapienti, ma anche il cuore di persone generose, orgogliose della propria origine e attaccate alla propria terra. Come dice Pico della Mirandola: «Magnum miraculum est homo». Ma anche altri principi sono alla base dell’impresa. Su tutti, un concetto di lavoro che vediamo nascere molti secoli fa, predicato e diffuso da San Benedetto, questo santo affascinante, che raccomanda all’abate, quale responsabile in vita e dopo la morte dei suoi monaci, di essere rigoroso e dolce, esigente maestro, amabile padre. Ho cercato di portare nella mia impresa questo spirito. San Benedetto mi ricorda che ogni giorno dobbiamo curare la mente con lo studio e l’animo con la preghiera e il lavoro. Da Platone ho appreso il rispetto delle regole, come insegna nella Repubblica, dove fa dire a Socrate che, ti piacciano o meno, «le leggi dello stato vanno rispettate più dei genitori». Perché, come potete immaginare, c’è un grosso problema da affrontare che, a mio avviso, rimane sempre aperto ed è sempre lo stesso, in ogni tempo: è quello del rapporto tra il datore di lavoro e le persone che collaborano con lui. Ho sempre pensato che ogni essere umano abbia una sua dote di genio, per quanto vari da individuo a individuo. Mio padre non conosceva niente del suo datore di lavoro; non ne conosceva i profitti, le proprietà e la vita che conduceva. Oggi, invece, per le nuove generazioni non è più così: esse sanno tutto o quasi del loro datore di lavoro. Credo pertanto che la condivisione delle ragioni e delle finalità di un’impresa, da parte di tutti coloro che vi sono coinvolti, debba essere il fondamento di un rapporto di lavoro sano e dignitoso. È per questo che ho deciso che qualsiasi giovane che venga a lavorare nelle nostre imprese sappia tutto di me e della mia vita. Infatti, da sempre ho immaginato e voluto avere un rapporto impostato su basi di fiducia e collaborazione. A tale riguardo, mi è servita da guida la bellissima espressione di Marco Aurelio, quando, dopo aver ammonito un giovane con le parole «datti pace, potrebbe essere forse l’ultimo giorno della tua vita», subito dopo gli ricorda di progettare come se fosse destinato a vivere per l’eternità. E, ancora: quanta nobiltà dimostra quando, nell’esortare i suoi soldati alla vigilia di una battaglia decisiva contro i Germani, non usa toni retorici, ma solo poche, semplici e immense parole: «O miei stimati uomini dell’impero romano, domani Roma ha bisogno di noi». Quale migliore modo per significare la dignità dell’uomo? Ecco, infine, il tema del futuro del mondo relativo al settore imprenditoriale. In questo difficile momento economico, morale e civile, credo che noi stiamo in qualche maniera riprogettando l’umanità. Non è escluso che la grande crisi economica dei nostri giorni possa avere infine conseguenze benefiche. C’è qualcosa di straordinariamente attuale in sant’Agostino quando, rivolgendosi a Dio, dice: «O eccellentissimo, onnipotente Reggitore dell’universo, Tu che ci mandi il dolore come maestro». Sono convinto, per l’Italia in particolare, che ci sia un sicuro avvenire se sapremo produrre beni di grande qualità, di grande artigianalità e di grande unicità, qualità queste che appartengono alla tradizione delle nostre genti. Ma, ciò che mi preoccupa di più, è come riuscire a convincere i giovani, i ragazzi a venire a lavorare nelle nostre imprese, dal momento che, a causa della bassa remunerazione (forse mille euro al mese o poco più), ritengono che il loro lavoro non sia dignitoso e che non abbia alcun significato. Eppure, Lorenzo il Magnifico considerava gli artigiani in qualche maniera fratelli dei grandi artisti. Aveva ragione, ma noi abbiamo tolto un po’ di dignità, un po’ di prestigio, un po’ di valore morale al nostro lavoro, e questo è un grave errore. Da parte mia, vorrei far riscoprire ai giovani il profondo significato che è riposto nel lavoro. Sono certo che, se riescono in questa impresa, le cose cambieranno e troveranno in se stessi il desiderio di dedicarsi con entusiasmo all’attività artigianale ed artistica. Nella conquista della propria identità, ottenuta attraverso al fatica, è riposta la condizione di vita che Dante chiama suprema felicità umana, e che però trovò solo in Dio. Boezio, alcuni secoli prima, disse qualcosa di simile: «O felice genere umano, se i vostri animi fossero governati da quell’amor che governa il cielo!». È un amore grande, quello di cui abbiamo bisogno, che non riguarda soltanto il lavoro e la fatica degli uomini, ma anche l’ambiente dove sono nati e vivono, un ambiente che non possiamo in nessun modo trascurare. È anche per questo che ho voluto restaurare Solomeo. Allorché le cose hanno cominciato ad andare abbastanza bene, son venuto in questo piccolo paese, che frequentavo già da fidanzato, e mi doleva il cuore vederlo abbandonato e diroccato, perché nel dopoguerra e poi negli anni Sessanta molte famiglie si erano costruite la casa fuori le mura per avere una dimora più accogliente. E proprio in questo borgo, con una decisione che allora destò meraviglia, decisi di trasferire la sede della mia piccola impresa. Perché la scelta di Solomeo? Perché lontano dai centri nevralgici dell’attività economica e commerciale? Perché mi ha sempre affascinato la vita al di fuori delle città. Fra i miei maestri, Jean-Jacques Rousseau, verso il 1750, diceva che le nostre città sono difficili da vivere. Forse dobbiamo tornare nei paesi, nei borghi, e discutere, riprogettare l’umanità. Questo è quello che ho cercato di fare scegliendo Solomeo. L’idea di vivere e di lavorare in un piccolo centro, per me, che da lì provengo e lì ho le mie radici, mi aveva sempre affascinato. Nel corso degli anni abbiamo cominciato i restauri, in modo spontaneo, quasi fosse gioco e, in quest’opera, abbiamo cercato solo di ascoltare la sapiente parola degli architetti del passato, di Palladio, Leon Battista Alberti, Vitruvio. Sotto la loro ispirazione ci siamo preoccupati di rispettare la natura e l’ambiente, facendo attenzione al Genius loci. Ci siamo riproposti di non alterare il passato ma di restituirlo alle generazioni precedenti e future, possibilmente reso più bello, secondo quello spirito di custodia cui facevo cenno precedentemente. Sono convinto che la felicità e la capacità di costruire il futuro sia alla portata di ciascuno e di tutti, di chiunque ami la bellezza, la spiritualità e la tolleranza, e di chiunque sia disposto a dire, con il grande filosofo Spinoza, «non son venuto al mondo per giudicare, né per condannare, ma sono venuto al mondo per conoscere». Ho l’impressione che stia arrivando il secolo d’oro; si intravede l’aurora di un mondo migliore. A tutti auguro di poter condividere il desiderio del mio maestro Erasmo da Rotterdam: «O mio Signore, fammi vivere ancora una ventina di anni perché sta arrivando il secolo d’oro». Dobbiamo tornare a credere nei grandi valori: la Famiglia, la Religione e la Politica. Questi valori hanno guidato i nostri genitori, i nostri nonni e noi. Essi possono illuminare anche i nostri figli, purché siano disposti ad accoglierli e ad ispirarvi le loro scelte quotidiane. Miei stimati amici, credo di essere pieno di debiti di gratitudine e pertanto vi ringrazio dal profondo del cuore. Vorrei che tutti ci ricordassimo che l’anima è sempre la fonte dei nostri grandi pensieri.

 

Che Dio illumini il nostro cammino.

 

Grazie

 

Brunello Cucinelli

 

Triarticolazione sociale in breve

 

Chi produce qualità può farlo grazie alle conoscenze che ha sviluppato in relazione al campo in cui opera. La possibilità di promuovere la qualità in un ambito qualunque dipende anzitutto dal talento del singolo, valorizzato per mezzo dell’educazione e dell’in-segnamento. Tutti quelli che, avendo sviluppato liberamente le proprie capacità e conquistato conoscenze adeguate, lavorano per produrre qualità, si accorgono però che per consentire alla qualità di af-fermarsi è necessario affrontare problemi politici ed economici che vanno al di là del loro ambito specifico di attività. Così i medici non convenzionali che prescrivono rimedi naturali si scontrano con gli interessi delle grandi case farmaceutiche, i ricercatori soffrono per i tagli statali ai fondi per la ricerca, gli agricoltori biologici cercano di difendere la biodiversità recuperando le sementi antiche che lo stato, condizionato da interessi economici, ha messo fuorilegge, gli insegnanti perdono tempo in pratiche burocratiche imposte dal ministero e senza le quali potrebbero lavorare di più e meglio e così via. In generale si riscontra che in qualsiasi campo gli interessi politici ed economici impediscono lo svilupparsi di una cultura e di un’educazione veramente libere. Appare allora chiaro che non basta produrre qualità nel proprio settore, ma che bisogna lavorare perché i rapporti reciproci tra cultura, politica ed economia vengano ridefiniti, creando un’alternativa di sistema capace di veicolare adeguatamente la qualità che viene prodotta nei settori particolari. Diversamente la qualità rischia di rimanere un fenomeno isolato, destinato a un piccolo gruppo di persone. Ma da dove cominciare?

     Il problema della qualità, come abbiamo detto, dipende prima di tutto dalla giusta cura dei talenti individuali attraverso l’educazione e l’insegnamento. Grazie a questa cura nuove idee e nuovi impulsi possono riversarsi nella comunità, trasformando l’organismo sociale in tutti i suoi settori. Perché ciò avvenga si devono anzitutto sviluppare forme di cultura libere. La libertà d’insegnamento è possibile solo se la scuola non è assoggettata né allo stato, né all’economia. Ma come può sostenersi una simile scuola? È necessario che parte dei capitali accumulati nell’attività economica – che normalmente vengono reinvestiti per ottenere un profitto, spesi per generi di lusso, o immobilizzati nelle proprietà fondiarie e immobiliari – vengano invece destinati, come donazioni, a iniziative culturali capaci di promuovere una vita spirituale libera. Bisogna però che questo avvenga in modo consapevole, imparando prima di tutto a distinguere il denaro di donazione da quello di prestito e da quello di scambio.

    Il denaro di scambio appartiene alla sfera economica; in essa si scambiano beni-merce con denaro-merce, così che ciascuno, cercando la soddisfazione del proprio bisogno, scambia un valore con un altro valore. Il denaro di prestito appartiene alla sfera politico-giuridica; in essa prestando denaro consentiamo a qualcuno di portare avanti la sua iniziativa e acquistiamo il diritto a riceverlo in restituzione con gli interessi. Il denaro di donazione appartiene alla sfera culturale-spirituale; grazie ad esso non si acquista nulla né si acquisisce qualche diritto, ma si permette ad altri di sviluppare liberamente i loro talenti.

    Nella nostra vita ci rapportiamo di continuo a queste diverse forme di denaro, ma confondendole spesso tra loro e spinti prevalentemente dalla logica del tornaconto personale: negli scambi ci occupiamo di avere il massimo della qualità col minimo di spesa; nel prestare il denaro ci preoccupiamo di avere il massimo tasso di interesse possibile; nel regalare denaro guardiamo per lo più al ritorno di immagine o alla causa che sosteniamo, senza prendere in considerazione se i beneficiari della nostra donazione ne sapranno fare un uso significativo per la comunità e se loro abbiano un giusto rispetto per la Terra e per l’Uomo.

    Dobbiamo invece cominciare a interessarci non più solo della qualità delle merci, dei tassi d’interesse e delle giuste cause, ma degli esseri umani che producono le merci, garantiscono i tassi d’interesse e portano avanti le giuste cause. E dobbiamo farlo tenendo presente come la vita economica, quella politico-giuridica e quella culturale-spirituale debbano essere rispettivamente animate dai tre grandi ideali di uguaglianza, giustizia e libertà, imparando a mettere sempre al centro della nostra attenzione le persone e il loro modo di lavorare per la comunità. Solo così potremo contribuire sensatamente al rinnovamento sociale di cui oggi sentiamo tutti la necessità.

E il verbo?

Fateci caso: i nostri bambini oggi, quando si rivolgono agli adulti, tendono a non usare più i verbi. Basta la “parolina magica” che apre ogni porta. Così a tavola dicono “acqua, per favore” e qualcuno versa loro da bere. Il verbo non è più di moda e appare come semplice possibilità priva di attributi («Posso un foglio?»). Ma l’assenza dei verbi nel linguaggio dei nostri bambini non è una buona cosa. Dovremmo ricominciare a insegnare loro ad esprimere chiaramente il loro pensiero e formulare correttamente le loro richieste, se vogliamo aiutarli a diventare uomini e donne capaci di lavorare insieme per il bene di tutti.

Prima di mangiare

I nostri bambini hanno bisogno di punti di riferimento per potersi orientare e trovare il loro cammino nel mondo. Questi punti di riferimento sono dati anche dalla ripetizione costante di piccoli gesti o di frasi che accompagnano importanti momenti della giornata come i pasti o la nanna, forme di ritualità di cui il bambino ha un profondo bisogno, come del latte materno; grazie ad esse può sentire di appartenere ad un mondo pieno di cose belle e buone in cui vale la pena di vivere. I ritmi della natura e il lavoro dell’uomo possono così presentarsi in brevi immagini, prima e dopo aver mangiato, per ricordare al bambino (e anche all’adulto) che la vita è un dono meraviglioso e che ringraziare gli esseri a cui dobbiamo la nostra esistenza è bello e fa bene a tutti.

 

God made the sun and God made the see,

god made the mountains and God made me.

I thank you God for the sun and the see

For making the mountains and for making me.

 

Chi ha fatto il sole, il mare, le montagne?

Chi ha fatto me?

Chiunque sia, io lo voglio ringraziare

per la luce e il calore del sole,

per la vita del mare, per la stabilità delle montagne

e per la gioia che mi regala ogni giorno.

 

Quando a tavola mi siedo

e sul tavolo io vedo

ciò che il sole ha riscaldato,

che la terra ha in sé cullato,

l’acqua e l’aria alimentato,

l’uomo saggio coltivato,

 

a me sembra naturale

poco prima di mangiare

ringraziar per un momento

l’aria, l’acqua, il sole e il vento

ed a chi per me lavora

il mio grazie dire ancora.

Viva la volontà!

    Spesso gli adulti trovano sconveniente che i bambini si esprimano dicendo «Voglio…» e cercano di correggerli. C’è chi li ammonisce dicendo che l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re, chi cerca di insegnare loro l’uso del condizionale «vorrei» per esprimere educatamente i propri desideri, chi li invita ad aggiungere la parolina magica «per favore» per essere ascoltati, chi cerca di farli riflettere sul senso di quella espressione per dissuaderli comunque dall’usarla. In un caso come nell’altro sembra che l’adulto cerchi di insegnare al bambino che esprimere la propria volontà in modo diretto non va bene. Se però un bambino dice: «Da grande voglio fare l’avvocato», l’adulto probabilmente non cercherà di correggerlo, dimostrando così che in certi casi invece l’erba voglio può crescere tranquillamente dove meglio crede.

    Da cosa dipende questa apparente contraddizione? Va bene esprimere la propria volontà, oppure no?

    Quando un bambino dice a un adulto «Voglio l’acqua», a ben guardare non sta realmente esprimendo la sua volontà, poiché la volontà è una forza grazie alla quale noi ci mettiamo in attività, ma sta esprimendo solo un bisogno. L’adulto però, senza rendersene conto, ha abituato il bambino a usare l’espressione «Voglio…» come se fosse una richiesta alla quale segue senz’altro il soddisfacimento del suo bisogno. Ciò dipende dal fatto che quando il bambino piccolo comincia a parlare, l’adulto non si preoccupa tanto di insegnargli ad esprimersi correttamente, ma si rallegra di riuscire a cogliere ciò che il bambino vuole esprimere verbalmente. Perciò quando un bimbo piccolo sta imparando a parlare, l’adulto è felice di sentirlo pronunciare la parola «acqua» e gliela offre volentieri senza che il bambino debba aggiungere altro. Quando poi il bambino impara a dire «voglio acqua» l’adulto apprezza la sua accresciuta capacità linguistica e di nuovo gli offre acqua senza aspettarsi altro. Se però l’adulto non sa cogliere il momento in cui può insegnare al bambino a fare il passaggio successivo per formulare una richiesta articolata, il bambino continua a dire «Voglio l’acqua» aspettandosi di essere soddisfatto e sviluppa così l’abitudine ad essere servito dall’adulto, anziché a chiedere agli altri un aiuto se non può fare da solo. Per evitare ciò è sufficiente riportare l’attenzione sul vero senso delle parole e chiedere al bambino se l’acqua (o qualsiasi altra cosa) vuole prendersela da solo, o se vuole che qualcuno lo aiuti. In quest’ultimo caso basta dire al bambino che è bene formulare una domanda chiara, come ad esempio: «Mi puoi dare un po’ d’acqua, per favore?».

    Quando l’adulto, alla frase «Voglio l’acqua», invita il bambino solo ad aggiungere la cosiddetta parolina magica «per favore» è chiaro che continua ad attribuire all’espressione «Voglio…» il significato «Dammi…» e invita il bambino ad usare la formula di cortesia «per favore» in modo sbagliato, dal momento che in realtà egli non ha formulato alcuna richiesta. Un bambino così educato si abituerà a pensare che affermare la propria volontà equivale a chiedere agli altri che soddisfino i nostri bisogni. Di conseguenza non domanderà mai nulla, aspettandosi di essere soddisfatto nel momento in cui nomina ciò che desidera. E se anche – come è ovvio – l’adulto non lo accontenterà in ogni suo desiderio, l’abitudine ad ottenere senza formulare chiaramente alcuna richiesta si formerà comunque.

    Nel caso poi in cui l’adulto risponde che l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re, il messaggio che arriva al bambino è che volere qualcosa non va bene. La realizzazione di sé però dipende dal fatto che una persona sappia cosa vuole e riesca a tradurre in azioni efficaci la propria volontà in armonia con quella degli altri. Affermando che l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re l’adulto, senza accorgersene, comunica al bambino la convinzione secondo la quale nella vita la propria volontà deve essere messa in secondo piano, per compiere il proprio dovere («Prima il dovere, poi il piacere», dicevano i nostri vecchi). Questa convinzione ha prodotto una lacerazione interiore che è all’origine di molti disagi dell’umanità occidentale contemporanea e che, a seconda del temperamento del bambino, può dare origine a manifestazioni come insicurezza, nervosismo, aggressività, prepotenza,  introversione, irascibilità e altro ancora, ma anche ad atteggiamenti manipolatori volti ad affermare comunque la propria volontà su quella normativa dell’adulto.

    Da tutto ciò può risultare chiaro che quando il bambino usa il verbo «volere» è opportuno aiutarlo a comprenderne correttamente l’uso. Non c’è nulla di male nell’esprimere chiaramente la propria volontà, ma bisogna insegnare al bambino ad usare il linguaggio per formulare richieste altrettanto chiare. Così, se un bambino dice «Voglio l’acqua», a seconda dei casi gli si può rispondere ad esempio: «Io invece voglio una mela, me ne passi una per favore?». Oppure: «Quando io voglio qualcosa, o me lo prendo da solo, oppure chiedo a qualcuno. Tu come vuoi fare?» Non si tratta di avere pronta una formula, ma piuttosto di capire che la volontà è uno dei beni più preziosi dell’uomo e che è sulla volontà che si fonda la possibilità di vivere una vita ricca di significato e di soddisfazioni per sé e per chi ci sta vicino. Persone con una forte volontà sono capaci di fare del bene agli altri e a se stessi e perciò è di fondamentale importanza che fin dalla più tenera età si abbia particolare cura per l’educazione della volontà nei bambini. Se faremo attenzione a ciò daremo un contributo significativo alla risoluzione dei problemi che oggi affliggono il nostro tempo.

Riso e cipolle

Ora di cena. Mamma, babbo e figlia di sei anni siedono a tavola. La mamma serve il riso cucinato dal babbo. La bimba chiede cosa c’è nel riso. «Cipolle», risponde la mamma. La bimba dice che non vuole le cipolle. La mamma la invita a lasciarle da una parte. La bimba comincia a cercare i pezzi di cipolla e a metterli sul bordo del piatto, lamentandosi del fatto che quel riso non le piace. La mamma le ripete che può mangiare solo il riso senza le cipolle, ma la bimba, forse accorgendosi quanto sia lungo e difficile quel lavoro perché le cipolle sono tagliate fini e sono molto cotte, continua a lamentarsi con la mamma e dice che quel riso le fa schifo. La mamma in tutta calma le dice che se vuole può anche fare a meno di mangiarlo, ma la bimba continua a lamentarsi mentre sposta da una parte i pezzetti di cipolla. Il babbo allora si alza e dice con fermezza alla bimba: «Mi dà molto fastidio quello che stai dicendo. Se continui ti tolgo in piatto e il riso non lo mangi». La bimba smette immediatamente di lamentarsi e in silenzio mangia il riso. I genitori parlano tranquillamente e qualche minuto dopo la bimba chiede al padre se dopo cena le fa vedere il clarinetto…

L’uomo e la donna

«I poeti, sono le donne a dirigerli. Le donne danno a un’età il suo colore; non perchè esse stesse siano onnipotenti, ma perchè gli uomini, bambini a ogni tempo, vedono il loro dio attraverso le donne e non hanno pace che sul loro petto e idea di rinascita nella similitudine della matrice. Gli uomini solitari sono come fiori tagliati in un vaso: sono belli, ma appassiscono perchè sono semza nutrimento. Pure se l’uomo acconsente a essere nutrito da donna, egli, come un fiore, mette le radici e tiene; non c’è evasione finchè la sua terra lo riceve di nuovo.»

(Charles Morgan, La fontana)

Olivetti e le forze spirituali

«La civiltà occidentale si trova oggi, nel mezzo di un lungo e profondo travaglio, alla sua scelta definitiva. Giacché le straordinarie forze materiali che la scienza e la tecnica moderna hanno posto a disposizione dell’uomo possono essere consegnate ai nostri figli, per la loro liberazione, soltanto in un ordine sostanzialmente nuovo, sottomesso ad autentiche forze spirituali le quali rimangono eterne nel tempo e immutabili nello spazio da Platone a Gesù: l’Amore, la Verità, la Giustizia, la Bellezza. Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici non potranno indicare a nessuno il cammino della civiltà.»

(Adriano Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità 1960. Ristampato ne Il mondo che nasce, Edizioni di Comunità 2013)

Il mondo che nasce è quello che Adriano Olivetti immagina, progetta e costruisce dal 1946, ed è raccontato nei dieci scritti raccolti in questa antologia inedita.
Pagine in cui si parla di dignità delle persone, di conoscenza, di comprensione profonda dei valori della cultura, di responsabilità dell’impresa verso i lavoratori e l’ambiente, e dove la scienza, la tecnologia e l’economia sono strumenti al servizio dell’uomo e della comunità.
Parole di un’agenda ideale per costruire un mondo davvero nuovo.

«Se io avessi potuto dimostrare che la fabbrica era un bene comune e non un interesse privato, sarebbero stati giustificati trasferimenti di proprietà, piani regolatori, esperimenti sociali audaci. Il modo di equilibrare queste cose esisteva: creare un’autorità giusta e umana che sapesse conciliare le iniziative nell’interesse di tutti. Per essere efficiente doveva avere grandi poteri economici, doveva, in altre parole, fare nell’interesse di tutti quello che io facevo nell’interesse di una fabbrica. Non c’era che una soluzione: rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali. Nasceva allora l’idea di una Comunità.»