Giuseppe e Anita

Il generale Canabarro avea deciso dover io uscire dalla Laguna con tre legni armati, per assaltare la bandiera imperiale nelle coste del Brasile – e mi accinsi all’opera raccogliendo tutti gli elementi necessari all’armamento.

In questo periodo di tempo ebbe luogo uno dei fatti primordiali della mia vita.

Io giammai avevo pensato al matrimonio e me ne credevo inadeguato, per troppa indipendenza d’indole e propensione a carriera aventurosa.

Aver una donna, dei figli, sembravami cosa interamente disdicevole a chi si era consacrato assolutamente ad un principio – che tuttoché ecccellente – non mi avrebbe permesso – propugnandolo col fervore di cui mi sentivo capace – la quiete e stabilità necessarie ad un padre di famiglia.

Il destino decideva in altro modo.

Io, colla perdita di Luigi, Edoardo e gli altri miei conterranei ero rimasto in un desolante isolamento, sembravami esser solo nel mondo. Nessuno più scorgevo dei tanti amici che quasi mi tenevano luogo di patria, in quelle lontane regioni. Nessuna intimità coi miei nuovi compagni, che appena conoscevo – e non un amico, di cui ho sempre sentito il bisogno nella mia vita. Il cambio di condizione poi erasi attuato d’un modo sì inaspettato ed orribile, ch’io n’era rimasto profondamente affetto.

Rossetti, che unico avrebbe potuto riempire il vuoto del mio cuore, era lontano, occupato nel Governo del nuovo Stato Repubblicano; mi era impossibile quindi goderne il fraterno consorzio. Infine, avevo bisogno d’un essere umano che mi amasse, subito! Averlo vicino, senza cui insopportabile mi diventava l’esistenza.

Benché non vecchio, io conoscevo abbastanza gli uomini per sapere quanto abbisogna per trovare un vero amico.

Una donna! Sì una donna! Giacché sempre la considerai la più perfetta delle creature! E cheché ne dicano: infinitamente più facile di trovare un cuore amante fra esse.

Io passeggiavo sul cassero della Itaparica, ravvolgendomi nei miei tetri pensieri; e dopo ragionamenti d’ogni specie conchiusi finalmente di trovarmi una donna, per trarmi da una noiosa ed insoportabile condizione.

Gettai a caso lo sguardo verso le abitazioni della Barra – così si chiamava una collina piuttosto alta all’entrata della laguna, nella parte meridionale – e sulla quale scorgevansi alcune semplici e pittoresche abitazioni. Là, coll’ajuto del canochiale che abitualmente tenevo alla mano quando sul cassero di una nave, scopersi una giovane. Ordinai mi trasportassero in terra, nella direzione di lei. Sbarcai, ed avviandomi verso le case ove dovea trovarsi l’oggetto del mio viaggio, non mi era possibile rinvenirlo; quando m’incontrai con un individuo del luogo, che avevo conosciuto ai primi momenti dell’arrivo nostro. Egli invitommi a prendere cafè nella di lui casa. Entrammo, e la prima persona che s’affacciò al mio sguardo era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare – era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona e nella cattiva fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo entrambi estatici e silenziosi, guardandoci reciprocamente – come due persone che non si vedono per la prima volta e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminiscenza.

La salutai finalmente e le dissi: “tu devi esser mia”. Parlavo poco il Portoghese ed articolai le proterve parole in Italiano. Comunque io fui magnetico nella mia insolenza; avevo stretto un nodo, sancito una sentenza, che la sola morte poteva infrangere! … Io avevo incontrato un proibito tesoro – ma pure un tesoro di gran prezzo!!!

Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera! E … vi fu colpa! Sì! … Si rannodavano due cuori con amore immenso – e s’infrangeva l’esistenza di un’innocente!

(Giuseppe Garibaldi, Autobiografia)

 

 

(Dall’autobiografia di Giuseppe Garibaldi, capitolo XVIII)

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