Dei talenti e del loro sano sviluppo

La più grande ricchezza dell’uomo sono i suoi talenti.

Da essi derivano le ricchezze esteriori, il progresso e la capacità di risolvere i problemi che la vita ci pone.

La società è tanto più sana e vitale, quanto più i talenti individuali vengono riconosciuti, sviluppati e messi al servizio degli altri.

I molti problemi che oggi ci affliggono dipendono in buona parte dal fatto che i nostri talenti non sono stati sviluppati, né tanto meno messi al servizio degli altri, ma sono stati mortificati o strumentalizzati da un sistema basato sul tornaconto personale, che ci spinge a lavorare per soddisfare i nostri propri bisogni, anziché quelli degli altri.

Dobbiamo riscoprire i nostri talenti e la gioia di fare quello per cui siamo nati, sapendo che la salute di una comunità di persone che vivono e lavorano insieme è tanto più grande, quanto più i suoi componenti si prendono cura gli uni degli altri mettendo a disposizione di tutti la propria ricchezza e facendo ciò per cui si sentono portati.

 

Nel suo libro Nati per comprare (Apogeo editore) la sociologa americana Juliet Schor mette in guardia rispetto ai pericoli del crescente diffondersi di conformismo e consumismo tra gli adolescenti degli Stati Uniti: «Siamo diventati una nazione che non ha più la priorità di insegnare ai propri figli a crescere bene socialmente, intellettualmente e spiritualmente, ma ha come obiettivo principale l’educazione al consumo. Una ricerca sui giovani di settanta città in oltre quindici paesi mostra che il 70% degli adolescenti americani desidera diventare ricco, una percentuale più alta che in qualsiasi altro paese del mondo eccetto l’India, dove i risultati sono identici. Il 61% desidera diventare famoso. L’America è il paese con il più alto numero di bambini che credono che gli abiti e le firme descrivano la loro personalità e definiscano il loro status sociale. I bambini americani sono i più attratti dalla marca di quelli di qualsiasi altro paese al mondo; gli esperti li descrivono come sempre più “vincolati al logo” e contemporaneamente sono aumentati i segnali di sofferenza tra i bambini. Gli indici di obesità sono a livelli epidemici. Le diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività sono aumentate drammaticamente, e un numero record di bambini assume farmaci per migliorare l’autocontrollo e la concentrazione. Cominciano ad apparire testimonianze aneddotiche sulla dipendenza dall’elettronica: videogame, Internet e giochi online. Le molestie e il bullismo sono fenomeni che imperversano nelle scuole, con nuove protagoniste, le “alpha-girl”, ragazzine leader all’interno di gruppi femminili di adolescenti.» (pag. 14)

Questa situazione – come spiega più avanti la Schor – è in buona misura effetto delle strategie di marketing delle grandi industrie, che sanno bene come far leva sui desideri dei bambini e degli adolescenti per spingere i genitori a mettere mano al portafoglio. Ma questo atteggiamento consumistico che si sta diffondendo tra i giovanissimi è solo la conseguenza di un marketing ben congegnato, o ci sono altri fattori che contribuiscono a creare questa situazione? Come far fronte a questo fenomeno, che coinvolge le famiglie anche quando i genitori tentano di opporsi, e che ha importanti conseguenze oltre che sullo sviluppo dell’infanzia anche su tutto lo sviluppo sociale ed economico di un paese? Solo considerando la questione da una prospettiva ampia e complessa sarà possibile aiutare le nuove generazioni ad affrontare le tentazioni del consumo in tutte le sue forme. Vediamo come.

L’essere umano, in quanto ha dei bisogni, è un consumatore. Ci sono bisogni legati alla vita del corpo (chiamati solitamente «primari») come il cibo, le bevande, i vestiti, il riposo, ecc. bisogni legati alla vita affettiva (tra cui il bisogno del Bello), bisogni morali (il bisogno del Buono) e bisogni conoscitivi (bisogno del Vero). Questi ultimi non trovano il loro naturale soddisfacimento nella sfera economica, nella quale si scambiano beni di consumo contro denaro, ma nella sfera relazionale attiva, in quella artistica e in quella culturale.

La soddisfazione di un bisogno dipende dal fatto che qualcuno sviluppi l’attività corrispondente ad esso: il consumo è possibile se qualcuno produce, il bisogno affettivo viene soddisfatto se qualcuno ci dimostra amore, il senso estetico viene soddisfatto dalla produzione artistica in senso lato, la sete di conoscenza viene spenta solo se dei ricercatori sono in grado di comunicarci risultati significativi di una seria ricerca scientifica, le esigenze della vita morale vengono soddisfatte da azioni buone. Chi poi lavora attivamente per soddisfare un qualche bisogno di altri può trovare in tale attività un ulteriore fonte di soddisfazione. Le soddisfazioni che noi possiamo avere nella vita sono cioè di due generi opposti e complementari: quelle da «consumatori», quando a fronte di una domanda vediamo soddisfatti i nostri bisogni grazie al lavoro altrui, e quelle da «produttori», quando per mezzo della nostra attività possiamo soddisfare i bisogni degli altri. La nostra vita è tanto più equilibrata quanto più possiamo in uguale misura da un lato trovare soddisfazione ai nostri bisogni, dall’altro offrire soddisfazione ai bisogni dei nostri simili. Dobbiamo cioè poterci sperimentare oltre che come consumatori anche come membri attivi all’interno della nostra comunità, dobbiamo poter lavorare per il soddisfacimento dei bisogni di altri vedendoci riconosciuti e apprezzati per questo.

Abbiamo così visto che ci sono tre diversi tipi di bisogni (quelli del corpo, quelli relazionali – o dell’anima – e quelli conoscitivi – o dello spirito), e in relazione ad essi le due sfere della produzione e del consumo, del dare e del ricevere. La cultura materialista ed egocentrica che si è affermata in occidente ci ha educato a pensare ed agire secondo la logica del tornaconto personale, abituandoci inoltre, negli ultimi decenni, a pensare al futuro come minaccia e provocando così un forte sbilanciamento verso i consumi, verso il prendere per sé il più possibile in previsione del peggio, aumentando così le problematiche sociali ed economiche che ci affliggono.

Le cause di ciò non sono da ricercare solo in quanto è successo negli ultimi anni, ma in tutto quello che l’umanità occidentale ha vissuto nell’epoca moderna, all’incirca dal ‘500 fino ai giorni nostri. Per un’analisi spregiudicata e obiettiva della nostra attuale situazione dovremmo ad esempio osservare come la creazione del denaro sia stata affidata fin dal Seicento dai regnanti alla casta dei banchieri, come l’economia politica sia stata dominata fin dal Settecento dall’utilitarismo, come la rivoluzione industriale sia sfociata, con il taylorismo prima e il fordismo poi, in forme di lavoro alienato molto sofisticate, come gli ideali di fraternità, uguaglianza e libertà proclamati dalla rivoluzione francese stiano ancora aspettando di potersi affermare, come il modello americano di sviluppo materiale fondato sulla competizione e sul primato abbia influenzato tutta la nostra cultura, mortificando sistematicamente e in modo deliberato quanto di meglio si manifestava sia in campo culturale che economico e alimentando i conflitti a tutti i livelli. Applicandoci ad uno studio spregiudicato della storia economica, politica e culturale dell’epoca moderna potremmo comprendere da dove viene il malsano desiderio oggi tanto diffuso di eliminare la fatica, l’impegno, la responsabilità, e d’altro lato dove affondi le sue radici la ricerca dell’uomo occidentale del proprio benessere, delle comodità, dei privilegi esclusivi, del potere, ricerca dalla quale hanno origine molti dei nostri mali sociali.

In ogni caso, per intervenire efficacemente, si possono anche lasciare da parte le cause storiche economiche, politiche e culturali della questione qui considerata, per limitarsi solo agli aspetti pratici di essa. A questo scopo è sufficiente osservare come l’educazione e la cultura degli ultimi trent’anni abbiano minato profondamente la volontà dei giovani, spingendoli a considerare la fatica, l’impegno, la responsabilità come sgradevoli imposizioni, anziché come fondamento di qualsiasi conquista personale significativa. Consideriamo ad esempio la scuola dell’obbligo, nella quale è quasi del tutto bandita ogni libertà di apprendimento. In essa bambini e giovani vengono costretti a studiare per anni materie con le quali non hanno alcun rapporto vivente, con la scusa che tutto ciò sia fatto per il loro bene futuro. Oppure guardiamo come la vita di appartamento delle grandi città unita alla minaccia di un ambiente sociale sempre meno sicuro abbia allontanato i bambini dalla natura, dal gioco di strada, dall’incontro con le realtà lavorative più diverse, per costringerlo a passare il suo tempo circondato da giocattoli di plastica, da spettacoli televisivi, da videogiochi, oppure scarrozzato a destra e a sinistra da un corso di danza a uno di musica, da una palestra a un campo di calcio, e si capirà come la risultante di tutti questi elementi congiunti, insieme all’indebolimento della volontà, sia la perdita della capacità d’intuizione, della fantasia, dell’entusiasmo e dell’iniziativa che stanno alla base di qualsiasi realizzazione significativa. Non c’è perciò da stupirsi se una gioventù privata delle forze migliori, incapace già dai primi anni di vita di concepire idee originali e di realizzarle a causa dello stile di vita che gli abbiamo inflitto, non essendo più in grado di produrre alcunché di significativo si lasci sedurre dalle più diverse proposte di consumo, dal videogioco alla droga, dalla merendina all’ultimo film di successo, cose queste che non comportano né fatica né responsabilità e che di conseguenza non portano mai a un accrescimento delle competenze o della consapevolezza e tanto meno ad una soddisfazione profonda dei propri bisogni. In questo modo la ricchezza che ognuno di noi ha in sé – vale a dire il proprio talento –, che se riconosciuto e sviluppato potrebbe essere offerto agli altri  e costituire la ricchezza della comunità, cessa di essere momento costitutivo della nostra vita sociale e si riduce a momento privato, qualcosa a cui nella maggioranza dei casi abbiamo il diritto e la possibilità di dedicarci solo nel tempo libero.

È così che negli ultimi decenni, senza che ce ne rendessimo chiaramente conto, ci siamo a poco a poco abituati a vivere una vita da consumatori. Questa abitudine lascia insoddisfatto un bisogno fondamentale dell’essere umano che è quello di trasformare il mondo che lo circonda a vantaggio di tutti sulla base delle sue conoscenze, delle sue intuizioni e della sua fantasia, per soddisfare i bisogni della propria comunità. Chi ci vuole consumatori ha appunto organizzato le cose in modo che le conoscenze disponibili non siano quelle che servono a cambiare le regole del gioco imposto, così che la fantasia si riduca a semplice valvola di sfogo grazie alla quale potere evadere dal quotidiano e che l’attività creativa sia relegata alla sfera privata del tempo libero senza alcuna efficacia sulla sfera sociale. In questo modo siamo stati catturati in un circolo vizioso dal quale è sempre più difficile uscire: l’abitudine al consumo fisico, psichico e mentale genera pigrizia, riduce la capacità di osservazione e di concentrazione, indebolisce la facoltà creativa e quella intuitiva (che si fondano essenzialmente sulla libera attività), spingendo a ricercare sempre di nuovo esperienze piacevoli che non richiedano applicazione, sforzo o responsabilità e non comportino alcun rischio. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi oggi: bambini nervosi, iperattivi, incapaci di concentrazione e adulti dalla volontà debole in perenne conflitto tra di loro, capaci di sognare a occhi aperti, ma non di creare nuove regole del gioco.

Tutto quanto viene riportato dalla Schor quindi non è altro che l’effetto ultimo di una cultura e di un’educazione che non possono – o peggio ancora non vogliono – fare in modo che la ricchezza di cui ognuno di noi è portatore possa andare a vantaggio della comunità. Fino a quando non ci renderemo conto che il consumismo di cui soffriamo oggi è la risultante di una vita interiore costruita fin dalla più tenera età sulla ricerca di stimoli esteriori, incapace di darsi da sé lo scopo del proprio agire, non potremo comprendere quello che stanno vivendo bambini e giovani oggi  e che desta in noi tante preoccupazioni. Solo quando avremo riconosciuto come il consumismo, sia quello materiale che quello psichico e mentale, indebolisce la volontà, abituando all’assorbimento e alla risonanza passivi di ciò che non è frutto della nostra propria attività, per ricominciare a dedicarci con impegno e senso di responsabilità a qualcosa che ci appassiona e che può avere significato per la nostra comunità, sapendo che i frutti del nostro lavoro si vedranno forse solo in un lontano futuro, potremo aiutare davvero le nuove generazioni a ritrovare l’entusiasmo e l’intraprendenza necessari per ciò che fa di loro degli attori consapevoli del rinnovamento sociale di cui abbiamo urgente bisogno.

Fabio Alessandri

 

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