La legge sociale fondamentale

 

«La salute di una comunità di uomini che lavorano insieme è tanto più grande quanto meno il singolo ritiene per sé i ricavi delle sue prestazioni, vale a dire quanto più di tali ricavi egli dà ai suoi collaboratori, e quanto più i suoi bisogni non vengono soddisatti dalle sue prestazioni, ma da quelle degli altri.»

 

(Rudolf Steiner, «Scienza dello spirito e problema sociale» 1905, ne «I punti essenziali della questione sociale», Editrice Antroposofica Milano)

Un esperimento conoscitivo sconcertante

Attraverso il senso della vista noi abbiamo due immagini del mondo, che sovrapponendosi danno luogo alla visione degli oggetti nello spazio tridimensionale. Quando vediamo un tavolo, un cane, un albero o qualsiasi altra cosa, diciamo a noi stessi “Ecco lì un tavolo, un cane, un albero” e così via. L’esistenza nello spazio e nel tempo di esseri e di oggetti è per noi un dato di fatto certo.

Ora provate a fare il seguente esperimento (tenete presente che se siete persone sensibili potreste provare nel farlo un certo senso di smarrimento, simile a una crisi di identità o a un attacco di panico): prendete una fotografia di una cosa o di una persona qualsiasi che conoscete. Voi sapete perfettamente che quella che avete di fronte è solo un’immagine, non la cosa o la persona che conoscete. Se qualcuno vi facesse vedere una foto di un amico e vi dicesse “Questo è Giovanni”, voi non tendereste certo la mano dicendo “Molto piacere” e non vi aspettereste di poter chiacchierare con la fotografia, ma sapreste immediatamente distinguere tra la persona in carne e ossa e la sua immagine. Guardando la fotografia potete dirvi: “Di fronte a me ho un’immagine bidimensionale di Giovanni. Giovanni in realtà non è un’immagine bidimensionale, ma una persona che posso incontrare nello spazio tridimensionale. Io posso distinguere con assoluta certezza la persona dall’immagine data dalla fotografia”.

Ora mettete da parte la fotografia e chiudete un occhio, concentrandovi su tutto quello che riuscite a vedere tenendo lo sguardo fisso; quindi domandatevi cosa state vedendo. Vi direte: “Vedo un tavolo, una sedia, una finestra, un albero” e così via. Se vi concentrate a sufficienza potrete però anche pensare: “Quello che io vedo non è altro che un’immagine bidimensionale che si forma nel mio occhio”. Il vostro occhio infatti è come la camera oscura di una macchina fotografica nella quale, attraverso il cristallino, si forma sulla retina un’immagine che poi viene elaborata dal cervello. Provate a sentire chiaramente il carattere di bidimensionalità di tale immagine.  Se  vi sforzate di sentire che voi state semplicemente percependo una immagine bidimensionale, allora potrete dirvi: “Così come di fronte alla foto di Giovanni io so che si tratta solo di un’immagine bidimensionale e che Giovanni si trova da tutt’altra parte, allo stesso modo di fronte all’immagine bidimensionale del mondo che il mio occhio mi trasmette io mi devo domandare dov’è il mondo a cui l’immagine mi rimanda.” Se mi approfondisco nel pensiero che io ho solo un’immagine del mondo, posso anche provare un certo smarrimento e perdere all’improvviso il senso della realtà. Quando questo mi succede, allora posso cominciare a domandarmi che cosa sia veramente la conoscenza umana. Come mai quando guardo il mondo, pur sapendo di trovarmi di fronte a un’immagine, io sono convinto di avere a che fare con una realtà che va al di là del’immagine? La percezione data dall’occhio, da sola, non mi pone di fronte ad una realtà, ma solo ad un’immagine a cui qualcosa in me dà valore di realtà. Che cos’è questo qualcosa in me che fa sì che io parli di una realtà?

Se avete sperimentato tutto questo nella vostra interiorità potrete  aprire un nuovo capitolo della vostra vita conoscitiva e, cominciando a dubitare di tutto quanto la filosofia ha sostenuto negli ultimi tre secoli da Kant in poi, vi metterete sulle tracce del pensare. Sarà allora per voi venuto il momento di provare a studiare «La filosofia della libertà» di Rudolf Steiner.

Giuseppe e Anita

Il generale Canabarro avea deciso dover io uscire dalla Laguna con tre legni armati, per assaltare la bandiera imperiale nelle coste del Brasile – e mi accinsi all’opera raccogliendo tutti gli elementi necessari all’armamento.

In questo periodo di tempo ebbe luogo uno dei fatti primordiali della mia vita.

Io giammai avevo pensato al matrimonio e me ne credevo inadeguato, per troppa indipendenza d’indole e propensione a carriera aventurosa.

Aver una donna, dei figli, sembravami cosa interamente disdicevole a chi si era consacrato assolutamente ad un principio – che tuttoché ecccellente – non mi avrebbe permesso – propugnandolo col fervore di cui mi sentivo capace – la quiete e stabilità necessarie ad un padre di famiglia.

Il destino decideva in altro modo.

Io, colla perdita di Luigi, Edoardo e gli altri miei conterranei ero rimasto in un desolante isolamento, sembravami esser solo nel mondo. Nessuno più scorgevo dei tanti amici che quasi mi tenevano luogo di patria, in quelle lontane regioni. Nessuna intimità coi miei nuovi compagni, che appena conoscevo – e non un amico, di cui ho sempre sentito il bisogno nella mia vita. Il cambio di condizione poi erasi attuato d’un modo sì inaspettato ed orribile, ch’io n’era rimasto profondamente affetto.

Rossetti, che unico avrebbe potuto riempire il vuoto del mio cuore, era lontano, occupato nel Governo del nuovo Stato Repubblicano; mi era impossibile quindi goderne il fraterno consorzio. Infine, avevo bisogno d’un essere umano che mi amasse, subito! Averlo vicino, senza cui insopportabile mi diventava l’esistenza.

Benché non vecchio, io conoscevo abbastanza gli uomini per sapere quanto abbisogna per trovare un vero amico.

Una donna! Sì una donna! Giacché sempre la considerai la più perfetta delle creature! E cheché ne dicano: infinitamente più facile di trovare un cuore amante fra esse.

Io passeggiavo sul cassero della Itaparica, ravvolgendomi nei miei tetri pensieri; e dopo ragionamenti d’ogni specie conchiusi finalmente di trovarmi una donna, per trarmi da una noiosa ed insoportabile condizione.

Gettai a caso lo sguardo verso le abitazioni della Barra – così si chiamava una collina piuttosto alta all’entrata della laguna, nella parte meridionale – e sulla quale scorgevansi alcune semplici e pittoresche abitazioni. Là, coll’ajuto del canochiale che abitualmente tenevo alla mano quando sul cassero di una nave, scopersi una giovane. Ordinai mi trasportassero in terra, nella direzione di lei. Sbarcai, ed avviandomi verso le case ove dovea trovarsi l’oggetto del mio viaggio, non mi era possibile rinvenirlo; quando m’incontrai con un individuo del luogo, che avevo conosciuto ai primi momenti dell’arrivo nostro. Egli invitommi a prendere cafè nella di lui casa. Entrammo, e la prima persona che s’affacciò al mio sguardo era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare – era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona e nella cattiva fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo entrambi estatici e silenziosi, guardandoci reciprocamente – come due persone che non si vedono per la prima volta e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminiscenza.

La salutai finalmente e le dissi: “tu devi esser mia”. Parlavo poco il Portoghese ed articolai le proterve parole in Italiano. Comunque io fui magnetico nella mia insolenza; avevo stretto un nodo, sancito una sentenza, che la sola morte poteva infrangere! … Io avevo incontrato un proibito tesoro – ma pure un tesoro di gran prezzo!!!

Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera! E … vi fu colpa! Sì! … Si rannodavano due cuori con amore immenso – e s’infrangeva l’esistenza di un’innocente!

(Giuseppe Garibaldi, Autobiografia)

 

 

(Dall’autobiografia di Giuseppe Garibaldi, capitolo XVIII)

L’amicizia secondo Simone Weil

“L’amicizia è il miracolo per il quale un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento. E’ la forza d’animo che non ebbe Eva, eppure essa non aveva bisogno del frutto. Se avesse avuto fame nel momento in cui guardava il frutto, e se ciò nonostante si fosse limitata a guardarlo per un tempo indefinito, senza accostarglisi di un passo, avrebbe compiuto un miracolo analogo a quello dell’amicizia”

Rilke e l’amore

Roma, 14 maggio 1904

“… Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci abbandonerà; è bene essere soli, perché la solitudine è difficile; che alcuna cosa sia difficile deve essere una ragione di più per attuarla.

Anche amare è un bene: ché l’amore e difficile. Voler bene da uomo a uomo: questo è forse il più difficile compito che ci sia imposto, l’estremo, l’ultima prova e testimonianza, il lavoro, per cui ogni altro lavoro è solo preparazione. Perciò i giovani, che sono principianti in tutto, non sanno ancora amare: devono imparare. Con tutto l’essere, con tutte le forze, raccolte intorno al loro cuore solitario, angosciato, che batte verso l’alto, devono imparare ad amare. Ma il tempo dell’apprendere è sempre un tempo lungo, di clausura, e così amare è, per lungo spazio e ampio fino entro il cuore della vita, solitudine, più intensa e approfondita solitudine per colui che ama. Amare anzitutto non vuol dire schiudersi, donare e unirsi con un altro (che sarebbe infatti l’unione di un elemento indistinto, immaturo, non ancora libero?), amare è un’augusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia di un altro, è una grande immodesta istanza che gli viene posta, qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa. Solo in questo senso, quale comandamento di lavorare a sé («di origliare e martellare giorno e notte») giovani creature potrebbero usare l’amore, che viene loro dato. Espandersi e offrire ogni sorta di comunione non è per esse (che ancora a lungo, a lungo devono risparmiare e accumulare); è il coronamento, è forse quello per cui vite di uomini oggi non bastano ancora.

In questo però i giovani errano così spesso e così gravemente: che essi (nella cui natura è di non avere alcuna pazienza) si gettano l’uno verso l’altro, quando l’amore li assale, si spandono, come sono, in tutta la loro torbidezza, disordine, confusione… Ma che deve allora accadere? Che deve fare la vita di questo cumulo di frantumi, ch’essi chiamano la loro comunione e ch’essi chiamerebbero volentieri la loro felicità e il loro futuro? Allora ognuno si perde per l’altro e perde l’altro e molti altri, che ancora volevano venire. E perde le distese e le possibilità, scambia l’avvento e lo svanire di sommesse cose piene di presentimento con un’infruttuosa perplessità, da cui più nulla può venire; null’altro che un poco di nausea, delusione e povertà, e il salvataggio in una delle molte convenzioni che vengono disposte come rifugi comuni in gran numero lungo questa pericolosissima via. Nessun dominio di esperienza umana è così provvisto di convenzioni come questo; cinture di salvataggio della più diversa fantasia, battelli e vesciche natatorie sono lì disponibili; ripari di ogni genere ha saputo costruire l’intendimento sociale, perché – com’era incline a prendere la vita dell’amore come un piacere – doveva anche produrla facile, a buon mercato, senza rischi e sicura come sono i pubblici svaghi.

Certo molti giovani che amano erroneamente, cioè con semplici effusioni, senza solitudine (la media si atterrà sempre a questa via), sentono il peso di una vocazione sbagliata e anche vogliono rendere vitale e fruttuoso a modo loro lo stato in cui sono capitati; ché la loro natura dice loro che le domande dell’amore ancora meno che tutto il resto che abbia qualche importanza possono essere risolte pubblicamente e secondo questa o quella transazione; che sono domande, domande urgenti da essere a essere, che hanno bisogno di una risposta in ogni caso particolare, solo  personale. Ma come potrebbero essi, che già si sono confusi insieme e non si delimitano e distinguono più, che non possiedono dunque più nulla di proprio, trovare una via di uscita nel profondo di se stessi, della solitudine già franata?

Agiscono per comune sgomento, e capitano – quando vogliano evitare, con la migliore volontà, la convenzione che gi si para innanzi (per esempio il matrimonio) – nella rete di una soluzione, meno rumorosa ma ugualmente mortale e convenzionale; ché allora ormai, intorno ad essi tutto è convenzione; là dove si agisce da una comunanza prematuramente confluita, torbida, ogni  azione è convenzionale: ogni relazione a cui porti questo smarrimento ha la sua convenzione, per quanto inusitata (cioè, nel senso corrente, immorale); anche la separazione sarebbe allora un passo convenzionale, un’impersonale decisione casuale, senza forza e senza frutto.

Chi consideri seriamente, trova che – come  per la morte, che è difficile – anche per il difficile amore ancora non è stato riconosciuto alcun chiarimento, alcuna soluzione, né cenno né via; e non si potrà ricercare per questi compiti, che noi portiamo velati e consegniamo oltre ad altri senza aprirli, alcuna regola comune che riposi su accordi generali. Ma nella stessa misura in cui noi cominciamo a tentare come singoli la vita, verranno incontro a noi, i singoli, queste grandi cose, via via più vicine. Le istanze, che il difficile lavoro dell’amore pone al nostro sviluppo, sono grandi oltre la vita, e noi non siamo, come principianti, ancora alla loro altezza. Ma se noi persistiamo e prendiamo su noi questo amore come peso e noviziato, invece di perderci a tutto il gioco facile e spensierato dietro cui gli uomini si sono nascosti di fronte alla più grave gravità della loro esistenza, forse un piccolo progresso e un piccolo alleggerimento potrà essere avvertito da quelli che verranno molto dopo di noi; e sarebbe molto.

Noi giungiamo appunto solo ora a considerare la relazione di una singola creatura umana con una seconda singola creatura senza pregiudizi e obiettivamente, e i nostri tentativi di vivere una simile relazione non hanno alcun modello avanti a sé. E pure nella curva del tempo già ci sono alcune cose che vogliono aiutare i nostri primi passi peritosi di principianti.

La fanciulla e la donna, nella loro nuova propria evoluzione, saranno soltanto per un tempo passeggero imitatrici delle maniere e cattive maniere maschili e ripetitrici di maschili professioni. Dopo l’incertezza di simili transizioni si dimostrerà che le donne sono soltanto passate attraverso la varietà e la volubilità di quei travestimenti (spesso ridicoli), per purificare il loro più proprio essere dagli influssi deformatori dell’altro sesso. Le donne, in cui la vita dimora più immediata, più fruttuosa e confidente, dovranno in fondo diventare esseri umani più maturi, più umani che il leggero maschio, il quale, non tratto oltre la superficie della vita dal peso di alcun frutto corporale, presuntuoso e affrettato, spregia quello che crede di amare. Questa umanità della donna sopportata in dolori e umiliazioni, quando avrà gettate da sé le convenzioni della esclusiva femminilità nelle metamorfosi del suo stato esteriore, verrà alla luce, e gli uomini che non la sentono oggi ancora venire ne saranno sorpresi e colpiti. Un giorno (e di ciò ora, specialmente nei paesi nordici, già parlano e brillano fidi segni) un giorno esisterà la fanciulla e la donna, il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sé, qualcosa per cui non si penserà a complemento e confine, ma solo a vita reale: l’umanità femminile.

Questo progresso trasformerà (da principio contro la volontà dei maschi sorpassati) l’esperienza dell’amore, che ora è piena di errore, la muterà dal fondo, la riplasmerà in una relazione intesa da uomo a uomo, non più da maschio a femmina. E questo più umano amore (che si compirà infinitamente attento e sommesso, e buono e chiaro nel legare e nello sciogliere) somiglierà a quello che noi con lotta faticosa prepariamo, all’amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, si delimitino e si salutino a vicenda.”

 

(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta)

Etty Hillesum e la sofferenza

«Bisogna esser capaci di sostenere e sopportare le cose, fino alla fine e con tutto il loro peso. Non sta qui la differenza tra i russi e noi occidentali? Il russo porta il suo fardello fino alla fine, piega le spalle sotto il peso, pieno di emozioni, e soffre nel profondo. Noi ci fermiamo a metà strada col sopportare  e ci liberiamo con parole, considerazioni, filosofie, trattazioni teoriche e quant’altro. Ci fermiamo nel cuore dell’esperienza delle nostre emozioni e non riusciamo più a portarle oltre e a soffrire, e i nostro cervello ci viene in aiuto, ci sottrae il peso e vi costruisce le sue teorie. E non sarà per questo che l’Europa occidentale ha prodotto tante filosofie, mentre in Russia, in quest’area, domina il silenzio? Quello che sentiamo dalla Russia sono allora lamenti e tutto proviene direttamente dall’anima; non importa se ogni cosa sarà logica o consistente, perché sarà stata vissuta nel profondo e quindi va bene. Negli occidentali le teorie e i sistemi devono funzionare come insiemi perfetti, altrimenti sentono che le loro vite non hanno una base solida e completa. Non subiscono, non vivono, non sopportano né soffrono, fino al profondo del loro essere; qui risiede la debolezza nella loro vitalità, una debolezza nella loro capacità di sopportazione. Pertanto è per loro di importanza vitale, assoluta che le teorie siano insiemi conclusi e non pieni di contraddizioni. Per il russo non ha alcuna importanza. (…) Noi invece ci priviamo della sofferenza finale e la allontaniamo da noi con le parole. Il russo sopporta fino alla fine e, se non soccombe, diventa sempre più forte.»

(Etty Hillesum, Diario – Adelphi, pag. 664)

Dammela!

Emilio ha tre anni e sta facendo colazione. A tavola con lui siede un amico del padre, ha in mano una macchinina. Emilio gli dice con tono imperioso: «Dammela!». L’amico gli dice: «Questo è un ordine e io non ascolto gli ordini.» Emilio insiste: «Dammela!» e l’amico continua: «Puoi anche continuare a darmi ordini, puoi metterti a piangere o a strillare, ma io non ascolto gli ordini. Se però me lo chiedi ti ascolto.» Emilio prova ancora a dire «Dammela», ma pare aver capito che pianti e urla non servirebbero a nulla e sta valutando come raggiungere l’obiettivo. Alla fine, timidamente e un po’ sottovoce, dice: «Mi dai la macchinina, per favore?» e l’amico gliela dà.

La forza degli ideali

Pagine da «Infanzia e giovinezza» di Albert Schweitzer

 

Le idee che determinano l’essere e la vita di un uomo sono date in lui in modo misterioso. Al suo uscire dall’infanzia esse cominciano a metter gemme in lui. Quando egli viene afferrato dall’entusiasmo giovanile per il Vero e il Buono esse fioriscono e danno frutti. Nello sviluppo che in seguito attraversiamo, ciò che importa veramente è solo di vedere quanti dei frutti che il nostro albero aveva dato in primavera sono rimasti su di esso.

La convinzione che noi nella vita dobbiamo lottare per continuare a pensare e sentire come in gioventù mi ha accompagnato come un fedele consigliere lungo la mia via. Istintivamente mi sono sempre guardato dal diventare quello che comunemente si intende un «uomo maturo».

L’espressione «maturo» applicata all’uomo mi suonava e mi suona ancora adesso come qualcosa che non mi appartiene. Accanto ad essa ed assieme ad essa sento sempre risuonare come dissonanze le parole «impoverimento», «intristimento», «ottusità». Ciò che comunemente ci capita di giudicare come maturità in un uomo non è che rassegnata ragionevolezza. La maturità uno se la acquista su modelli altrui, abbandonando pezzo a pezzo i pensieri e le convinzioni che gli erano cari quando era giovane. Credeva nel trionfo della verità, ora non ci crede più. Credeva negli uomini, ora non più. Credeva al Bene, ora non ci crede più. S’infervorava per la giustizia, ora non più. Aveva fiducia nella potenza della bontà e della natura pacifica, ora non più. Poteva entusiasmarsi; ora non più. Per navigare meglio tra i pericoli e le tempeste della vita ha alleggerito la sua barca. Ha buttato via merci che riteneva superflue. Ma ciò di cui si liberava erano le scorte di cibo e di acqua. Ora egli naviga più leggero, ma come uomo si strugge.

In gioventù mi sono intrattenuto con adulti, dai cui discorsi spirava una tristezza che mi opprimeva il cuore. Essi guardavano indietro all’idealismo e alla capacità di entusiasmo della loro gioventù come a qualcosa di prezioso che si sarebbe dovuto conservare fermamente. Al tempo stesso però consideravano come una legge di natura il fatto che ciò non fosse possibile.

Mi venne allora paura che un giorno dovessi anch’io guardare indietro a me stesso in modo così triste. Decisi di non sottomettermi a questo tragico «diventare ragionevole». Ciò che mi ero ripromesso con caparbietà quasi infantile ho cercato di realizzarlo.

Troppo volentieri gli adulti si compiacciono nel triste ufficio di preparare la gioventù al fatto che un giorno essa riconoscerà come illusione la maggior parte di ciò che al momento eleva il suo cuore e i suoi sentimenti. La più profonda esperienza di vita però parla diversamente all’inesperienza. Essa scongiura la gioventù di conservare ben saldi attraverso la vita intera i pensieri che la entusiasmano. Nell’entusiasmo giovanile l’uomo scorge la verità. In esso egli possiede una ricchezza che non deve barattare a nessun costo.

Noi tutti dobbiamo essere preparati al fatto che la vita voglia toglierci la fede nel Bene e nel Vero, insieme all’entusiasmo per essi. Ma dobbiamo fare in modo di non cederglieli. Che gli ideali, quando si confrontano con la realtà, vengano di solito schiacciati dai fatti, non significa che essi debbano capitolare fin dall’inizio di fronte ai fatti, ma solo che i nostri ideali non sono abbastanza forti. Non sono abbastanza forti, perché in noi non sono abbastanza puri, forti e durevoli.

La potenza dell’ideale è incommensurabile. Ad una goccia d’acqua non si attribuisce alcuna potenza. Se però penetra in un crepaccio e lì diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; come vapore spinge l’albero della macchina più potente. Le è dunque accaduto qualcosa che rende efficace la potenza che è in lei.

Lo stesso avviene con l’ideale. Gli ideali sono pensieri. Fino a quando essi rimangono solo pensieri pensati la potenza che è in essi rimane inefficace, anche se vengono pensati con il massimo entusiasmo e con la più ferma persuasione. La loro potenza si estrinseca solo quando avviene che ad essi si unisca l’essere di un uomo purificato. La maturità verso cui dobbiamo svilupparci consiste nel dovere di lavorare su noi stessi per diventare sempre più semplici, sempre più veraci, sempre più puri, più pacifici, più miti, più compassionevoli. A questo «disinganno», e solo a questo, non dobbiamo abbandonarci. In esso il tenero ferro dell’idealismo giovanile si tempra nell’acciaio dell’idealismo della vita che non può andare perduto.

Il grande sapere è essere capaci di venire a capo delle delusioni. Tutti i fatti sono effetto di una forza spirituale; quelli coronati da successo di una forza sufficientemente grande; quelli cui il successo non arride di una  forza insufficiente. Se il mio comportamento dettato da amore non ha alcun effetto è perché in me c’è ancora troppo poco amore. Se sono impotente di fronte alla falsità e alle bugie che mi circondano il motivo è che io stesso non sono abbastanza veritiero. Se devo assistere al triste gioco che continuano a perpetrare invidia e cattiveria, ciò vuol dire che io stesso non mi sono ancora spogliato del tutto dalla meschinità e dall’invidia. Se la mia natura pacifica viene fraintesa e schernita significa che in me non c’è ancora una natura sufficientemente pacifica.

Il grande segreto consiste nel vivere senza lasciare che la vita logori la nostra umanità. Ciò è possibile solo a chi non conta su uomini e fatti, ma in ogni circostanza viene rimandato a se stesso e cerca il motivo ultimo delle cose nella propria interiorità.

A chi lavora alla propria purificazione niente potrà mai rubare l’idealismo. Egli sperimenta la potenza delle idee del Vero e del Buono nel proprio intimo. Anche se di quello che egli vuole operare in questo senso fuori di sé vede ben poco, egli tuttavia sa di essere efficace nella misura in cui in lui c’è purificazione. È solo che il successo non è ancora sopraggiunto, oppure rimane nascosto al suo occhio. Dove c’è forza, c’è l’effetto della forza. Nessun raggio di sole va perduto. Ma la vegetazione che esso risveglia ha bisogno di tempo per germogliare e il seminatore non è sempre destinato a prendere parte al raccolto. Qualsiasi opera significativa è un atto di fiducia.

Il sapere della vita che noi adulti dobbiamo comunicare ai giovani non suona perciò così: “La realtà farà strage dei vostri ideali”, ma al contrario: “Crescete sempre più nei vostri ideali, così che la vita non riesca a strapparveli”.

Se gli uomini diventassero ciò che sono a quattordici anni come sarebbe diverso il mondo!

Come individuo che ha cercato di rimanere giovane nel suo pensare e sentire ho lottato con i fatti e l’esperienza per la fede nel Buono e nel Vero. In quest’epoca, in cui la violenza mascherata di menzogna siede come mai prima d’ora sul trono del mondo in modo inquietante, rimango lo stesso convinto che la verità, l’amore, la mansuetudine, la dolcezza e la bontà sono potenze superiori a qualsiasi altra potenza. Ad esse apparterrà il mondo, se solo ci sarà un numero sufficiente di uomini che pensino e vivano con purezza e forza e sufficiente costanza i pensieri d’amore, di verità, di mansuetudine, di dolcezza.

Qualsiasi violenza ordinaria si limita da se stessa, poiché produce una violenza contraria che presto o tardi la uguaglierà o la supererà. La bontà invece agisce con semplicità e costanza. Non produce tensioni che la pregiudichino. Essa scioglie le tensioni esistenti, fa sparire diffidenza e malintesi, si rafforza da sé in quanto richiama altra bontà. Perciò è la forza più adeguata allo scopo e più intensa.

Tutto quanto un uomo diffonde nel mondo come bontà, agisce sui cuori e sul pensiero degli esseri umani. La nostra folle trascuratezza sta nel non avere il coraggio di fare sul serio con la bontà. Noi vogliamo rotolare un peso enorme senza servirci della leva che centuplica la forza.

Una verità di una profondità incommensurabile è racchiusa nella fantastica parola di Gesù: “Beati i mansueti, poiché possiederanno la Terra”.

 

Strasburgo, febbraio 1924

 

La solitudine oggi


LA SOLITUDINE E’ IL MALE DELLA NOSTRA SOCIETA’

di Marco Lodoli.

Zygmunt Bauman, il pensatore che ha trovato l’aggettivo giusto per definire il nostro tempo, la nostra società, il nostro modo di amare e di essere, “liquidi” perché incapaci di coaugularsi in sentimenti e pensieri forti, in sicurezze e tradizioni, in un breve saggio recente, “Lo spirito e il clic”, sostiene che gli uomini contemporanei sono marchiati da tre paure vaghe e convergenti: l’incertezza, l’ignoranza, l’umiliazione.

Incertezza nel “trovare la nostra strada nel mondo”, ignoranza perché non comprendiamo più le connessioni tra gli eventi, umiliazione perché sentiamo che la nostra vita è nelle mani di altri, di potenze occulte che ci guidano senza che noi possiamo fare nulla per decidere liberamente. Il risultato di tutto ciò è un senso di solitudine, simbolica e reale, ben definito nel titolo di un libro del sociologo Robert Putman: “Bowling alone”, ovvero andare a giocare a bowling da soli.

Siamo tutti soli davanti a quei birilli lontani, soli con una palla in mano, la musica che ci rintrona, il fast food alle spalle, la strisciante sensazione che la nostra vita non serva a niente, neppure a noi stessi. Forse noi italiani non siamo ancora arrivati a questa polverizzazione sociale, la famiglia, gli amici, il quartiere ci difendono dallo sgomento della solitudine, possiamo ancora iscriverci a un sindacato o a una scuola di tango, frequentare la parrocchia dietro casa o un corso di cucina. Però anche noi ormai abbiamo l’impressione che lo sfarinamento è in corso, nel tempo della crisi ognuno investe su se stesso, sui propri figli, cerca di prendere le posizioni migliori in pista, avverte gli altri essenzialmente come avversari.

Già nelle scuole elementari si percepisce la natura agonistica della società contemporanea: i bambini vengono iscritti a pianoforte o a calcio, a inglese o a tennis non tanto per completare una formazione caratteriale, quanto per accumulare punti, per potenziare la creatura, per darle qualche asso in più da calare sul tavolo del futuro. Negli spogliatoi della piscina che frequento c’è silenzio, ognuno svuota e riempie la sua sacca, pensa a quante vasche potrebbe fare, prepara il fisico a qualche scontro ideale, e nessuno parla con nessuno. Questo è il primo problema della nostra vita attuale: ogni goccia deve ritrovare il senso della corrente collettiva, ogni briciola, se non vuole seccarsi sulla tovaglia sporca, deve ricomporre la pagnotta comune.

Siamo parte di un tutto, ma ce lo siamo dimenticati, o meglio: la società occidentale, formata totalmente sulle regole del mercato, tende a scomporsi in atomi rivali, in solitudini minacciose perché minacciate. Chi ha i soldi spinge i figli su percorsi europei, abbandona cinicamente la barca che si riempie d’acqua, coltiva una solitudine vincente. Chi annaspa tra le onde tira calci a casaccio, grida, si dispera, teme che non ci sarà spiaggia né altro approdo. Cambiano i governi, cambiano i ministri, ma non cambia l’incapacità di vivere insieme, e solidarietà, compassione, collaborazione sono parole moribonde. Eppure soprattutto questo andrebbe insegnato ai bambini e ai ragazzi: che nessun uomo è un’isola, che la vita non è fatta per distanziare gli altri, come in una corsa campestre tra fango e salite. Chi parte da solo, corre da solo e arriva da solo ha comunque già perso.

06 maggio 2013

Intervista a Gerald Hüther

NON ABBIAMO BISOGNO DI SERRE, MA DI SCUOLE APERTE!

L’apprendimento per la maggior parte del tempo non avviene nelle scuole

CI VUOLE UN VILLAGGIO PER FAR CRESCERE UN BAMBINO

intervista di Thomas Stöckli a Gerald Hüther

Gerald Hüther, neuroricercatore e direttore del Centro di Ricerche per la Prevenzione Neurobiologica dell’Università di Göttingen e Mannheim/Heidelberg (Germania), è autore di molti libri nel campo della ricerca sul cervello. Thomas Stöckli è un insegnante svizzero di  scuola Waldorf.

L’intervista è tratta dalla rivista Erziehungskunst – Waldorfpädagogik heute (Arte dell’educazione – Pedagogia Waldorf oggi), Aprile 2010. Traduzione dal tedesco di Fabio Alessandri.

Thomas Stöckli :  Come è andata per lei quando frequentava la scuola?

Gerald Hüther : Nella Germania dell’Est ogni cosa era totalmente strutturata. La scuola non mi coinvolgeva e io speravo che finisse presto. Nonostante questo ho avuto insegnanti che hanno risvegliato il mio interesse in alcune materie.

T.S. Dunque non ha imparato niente a scuola?

G.H. L’apprendimento mnemonico non ha importanza nella vita reale. Noi impariamo dalle nostre esperienze. Dov’è che bambini e ragazzi al giorno d’oggi hanno quelle esperienze che veramente li colpiscono? Le hanno nell’ambiente di gioco, a casa con i loro genitori e facendo dei lavori con i loro compagni, ma non a scuola.

T.S.  Cosa si dovrebbe cambiare?

G.H.  Non abbiamo bisogno di «serre», dove le piante (cioè i bambini; N.d.T.) siano protette dall’am-biente, ma scuole aperte dove ci sia vita, scuole che incarnino la saggezza africana secondo cui ci vuole un villaggio per il completo sviluppo di un bambino. Le scuole dovrebbero rendere possibili ai bambini e ai giovani esperienze di apprendimento come quelle che si possono trovare in un villaggio – soprattutto l’interazione con molti differenti tipi di persone che non devono essere soltanto insegnanti.

T.S.  Ciò viene confermato dalla ricerca neurologica?

G.H.  La prima cosa importante da sapere è che il cervello umano non viene costruito secondo programmi genetici, ma si struttura nel corso della vita sulla base di esperienze. Queste esperienze iniziano molto prima di quanto si credeva una volta. I nove mesi di gestazione possono essere visti come il più importante periodo di apprendimento della vita.

Più tardi le esperienze relazionali (relazioni con le prime persone di riferimento, con membri della famiglia, con compagni e amici all’asilo e a scuola) vengono trasformate in reti neuronali. Questo processo continua durante tutta la vita. Il cervello umano è molto più plastico e trasformabile di quello che si è sempre creduto.

T.S.  Si può parlare di una modificazione della struttura del proprio cervello durante tutto il corso della vita?

G.H.  Sì, l’unico presupposto affinché i vissuti si «ancorino» nel cervello è che si facciano esperienze che rilascino nel cervello trasmettitori chimici neuroplastici. Quando questi trasmettitori chimici vengono rilasciati è come se un «annaffiatoio» cominciasse a versare i fattori di crescita che rendono possibile l’ancoraggio nel cervello delle esperienze e di ciò che è stato imparato.

T.S.  In quali situazioni si apre questo «annaffiatoio»?

G.H.  Questo succede ogni volta che una persona si entusiasma per ciò che apprende, quando la cosa che si impara ci sembra piena di significato, quando qualcuno è sollecitato, incoraggiato, o ispirato da altri a fare nuove esperienze di apprendimento. L’entusiasmo è essenziale per lo sviluppo del cervello. Perciò la riscoperta dell’entusiasmo nella scuola è un presupposto per la creazione di un diverso tipo di ambiente di apprendimento.

T.S.  Ci sono conoscenze ulteriori a questo riguardo?

G.H.  I programmi genetici non producono alcuna rete neuronale, ma assicurano che alla nascita sia disponibile il giusto «materiale» per la formazione di un buon cervello. Con i programmi genetici non si può sapere in ultima analisi quante cellule nervose verranno utilizzate per un cervello, né sapere come queste cellule nervose vengano connesse tra loro. Quali di queste possibilità di connessione vengano effettivamente stabilite dipende da quali reti vengono usate e quali no.

Nei bambini che guardano molto la televisione viene costruita la rete-televisione; in quelli che giocano a calcio viene costruita la rete-calcio. Il potenziale di un bambino al momento della nascita è molto più grande di quanto non sia al termine dell’educazione e della formazione. Il compito della scuola perciò dovrebbe essere di utilizzare questo potenziale, vale a dire risvegliare l’entusiasmo nel bambino, non solo insegnargli ad appropriarsi di contenuti culturali, ma anche dare un proprio contributo originale.

Col passare degli anni noi perdiamo la capacità di entusiasmarci per quello che riusciamo a fare. Un bambino di tre o quattro anni prova ogni giorno forse quaranta o cinquanta volte delle «tempeste» di entusiasmo. Un ragazzo prova forse ancora una volta al giorno un’esperienza di successo, una persona di mezza età una volta alla settimana. Non parlo di una gioia fugace, ma di vero entusiasmo che attiva l’ «annaffiatoio» di cui ho parlato prima.

T.S. Come stanno le cose per l’anziano? Può per esempio un ottantacinquenne imparare ancora il cinese?

G.H. Forse non può riuscirci all’università popolare, perché lì manca l’entusiasmo necessario. Se però la persona in questione si trasferisce in Cina con una cinese settantacinquenne, dopo sei mesi potrebbe parlare cinese.

T.S. Dobbiamo allora pensare che sia auspicabile avere quante più esperienze possibili?

G.H.  I bambini hanno bisogno di un ambiente nel quale vengano soddisfatte due condizioni di base: ogni giorno devono poter crescere un po’ oltre se stessi e sentire che nel loro ambiente ci sono possibilità di sviluppo, e oltre a ciò devono sperimentare come esistano comunità nelle quali si è protetti. Se una di queste due condizioni passa troppo in secondo piano il bambino vive un senso di insoddisfazione, che lo porta a sperimentare insicurezza, paura e stress, perché le sue aspettative non sono soddisfatte. Allora il bambino stesso deve trovare una soluzione. Spesso i bambini trovano simili soluzioni in forma di soddisfazioni sostitutive come videogiochi e televisione, ma poiché questi li soddisfano solo momentaneamente, ne hanno bisogno sempre di più. Questi bambini perdono interesse per la collaborazione a processi di trasformazione del mondo e si focalizzano su come ottenere il più possibile dal poco che hanno trovato. Facendo questo perdono di vista gran parte del mondo e si privano di molte cose. Dal punto di vista dello sviluppo del cervello questo stato di cose produce una versione molto impoverita di ciò che sarebbe potuto essere.

T.S.  Da cosa si capisce se una scuola offre un simile ambiente di apprendimento?

G.H.  Lo si capisce dal fatto che gli alunni ci vanno volentieri e sono tristi quando cominciano le vacanze.

T.S.  Questo però succede in pochissime scuole. Come si potrebbe cambiare il sistema scolastico?

G.H.  Al momento si sta provando ad adattarsi ad un sistema educativo che risale all’epoca dell’indu-strializzazione: gli studenti vengono suddivisi nelle scuole di diverso ordine a seconda delle loro prestazioni, con il risultato che alla fine emerge solo ciò che è consentito da simili condizioni.

La scuola nella nostra società incoraggia la spinta alla prestazione e la competizione. Se però i bambini devono competere tra loro e la paura di fallire viene alimentata, allora una cultura scolastica come quella che io immagino è del tutto impossibile, allora gli studenti ripiegano su atteggiamenti volti a far fronte all’emergenza e si preoccupano solo di come sopravvivere alla scuola. Entusiasmo, spirito di scoperta e forze formative in questo caso vanno perdute.

T.S. Che conclusioni si devono trarre da ciò?

G.H.  Si dovrebbe eliminare dalle scuole ciò che crea pressione, abolire i voti e spingere gli studenti alla scoperta personale e alla creazione. Per far questo ci sarebbe bisogno di insegnanti che non si considerino degli esecutori, ma autorità pedagogiche capaci di dare una direzione ai propri alunni. Un insegnante che non è in grado di costruire un rapporto personale con gli studenti non può interessarli. Un insegnante capace di incoraggiare gli alunni deve essere coraggioso. Oggi molti insegnanti presi dalla routine della scuola si sono scoraggiati. Un insegnante dovrebbe essere capace di entusiasmare gli studenti, sollecitandoli a fare nuove esperienze formative; non dovrebbe ad esempio essere entusiasta della matematica in sé, ma della possibilità di entusiasmare i suoi studenti per la matematica. Si tratta di una forma di entusiasmo del tutto diversa, che pochissimi insegnanti hanno e che secondo me non si può imparare neanche in cinque anni di studio universitario.

T.S.  Oltre agli insegnanti non dovrebbero cambiare modo di pensare anche i genitori?

G.H.  Anche se si cambiassero le cose come ho detto, l’impresa non potrebbe riuscire senza una trasformazione di coscienza da parte dei genitori. Molti genitori hanno avuto esperienze negative a scuola e credono che ora anche i loro figli debbano avere le stesse brutte esperienze. A questo scopo molti genitori delegano la responsabilità educativa alla scuola. La scuola però non è il luogo in cui ci si può dedicare a quello che dovrebbe succedere in famiglia. Per i bambini invece è essenziale occuparsi insieme di qualcosa, avere qualcosa a cui rivolgere insieme l’attenzione.

T.S.  Perché?

G.H. Simili esperienze comunitarie sono il presupposto affinché il bambino possa crescere all’intero di una società individualistica come quella che abbiamo oggi. Nelle famiglie in cui questo non è riuscito i bambini rimangono legati ad una relazione primitiva di dipendenza, sempre incentrata sul «due». Questi bambini non sono in condizione di includere un terzo elemento comune. Con ciò non si intende una serata insieme di fronte alla televisione. I bambini che non hanno interiorizzato come esperienza questa attenzione suddivisa non sono capaci di seguire delle lezioni, non conoscono alcun rapporto nato dal fare qualcosa insieme agli altri. Simili bambini disturbano; o vengono esclusi dal gruppo o si chiudono in se stessi. Perciò è nell’interesse di tutti risvegliarsi e accorgersi che con le nostre stesse strutture sociali stiamo distruggendo il fondamento su cui poggia la nostra cultura.

T.S. In quali situazioni di apprendimento i bambini possono con un’attenzione suddivisa fare esperienze che li aiutino nel loro sviluppo?

G.H.  La risposta è banale: facendo canto corale, musica, teatro, lavori manuali e di costruzione. Queste esperienze di apprendimento appartengono al campo musicale-estetico, che nel nostro attuale sistema scolastico viene considerato poco significativo.

Al momento il nostro sistema scolastico è disperatamente individualizzato. I bambini si occupano solo dei propri affari. Noi chiamiamo questo egocentrismo, ma in realtà i bambini stanno solo mostrandoci come li abbiamo privati di determinate esperienze, come per esempio cucinare insieme o guardare insieme un libro illustrato. Sono convinto che noi come società non saremo capaci di progredire, se la scuola non offrirà maggiori opportunità di prendere parte a iniziative sociali e mi domando che cosa si svilupperà da una società di individualisti come la nostra.