Metropolitana milanese

Metropolitana milanese. Alcune persone aspettano sulla banchina l’arrivo del prossimo treno. Un signore sulla cinquantina, ben vestito e piuttosto distinto, sta facendo una chiamata da un telefono pubblico mentre fuma una sigaretta. Sopra di lui il cartello “VIETATO FUMARE”. Un uomo gli si avvicina, richiama la sua attenzione toccandogli discretamente la spalla, gli indica il cartello e gli dice con gentilezza: “E’ vietato fumare”. Il signore che sta aspettando una risposta all’altro capo del filo replica seccato: “Lo so, lo so. Ma lei chi è, un’autorità?” “Sì, – risponde l’uomo, affabile ma determinato – perché, lei non lo è?” – “Pronto? Buongiorno” dice il signore al telefono, che non ha voglia né tempo di discutere. E spegne la sigaretta con aria rassegnata. L’uomo si allontana per salire sulla metropolitana che nel frattempo è arrivata. Sorride.

La nostra direzione

Pensare con la propria testa;

costruire valide alternative

alla competitività, alla logica del potere e del profitto;

sviluppare capacità di ascolto, impegno sociale,

interesse per la diversità,

spirito d’iniziativa, gioia di vivere, amore per la verità;

non smettere di domandarsi come possano convivere

giustizia, libertà e fratellanza,

continuando  a meravigliarsi per la bellezza che ci circonda;

entusiasmarsi per un ideale e lavorare alla sua realizzazione,

 facendo tesoro degli insuccessi, delle critiche e degli errori;

e trasformare tutto questo

nella capacità di aiutare le nuove generazioni a crescere

e a costruirsi una concezione del mondo

capace di infondere coraggio e forza per la vita.

Questi sono gli obiettivi verso cui dirigiamo i nostri passi.

Lacrime e flauti

    Un bambino di nove anni che sta partecipando a un laboratorio per la costruzione di un flauto di canna piange disperatamente con accanto il padre che cerca di consolarlo dicendo: «Non è grave, vedrai che adesso lo sistemiamo». Si avvicina l’insegnante che sta conducendo il laboratorio e chiede che cosa è successo. Il padre, che da qualche minuto sta provando a far smettere di piangere il figlio, spiega che il bambino dice di aver fatto un buco sbagliato e di avere rovinato il flauto. L’insegnante allora si rivolge al bambino e gli dice: «Hai ragione a piangere, anch’io piangerei al tuo posto se avessi fatto un errore così.» In quel momento il bambino smette di piangere e appare rasserenato. Il padre stupito chiede all’insegnante: «Ma come ha fatto?».

I bambini – come gli adulti – hanno bisogno di conferme. Noi spesso, senza pensarci, diciamo loro che quello che sentono e che pensano non va bene, è sbagliato. La conseguenza è che, facendoli sentire “sbagliati”, aumentiamo il loro dispiacere e il loro senso di insicurezza. Se invece sappiamo riconoscere che il loro comportamento non è altro che il loro modo particolare di affrontare la sofferenza, mostriamo loro di comprenderli profondamente e li aiutiamo a superare i loro dispiaceri.

 

 

Dei talenti e del loro sano sviluppo

La più grande ricchezza dell’uomo sono i suoi talenti.

Da essi derivano le ricchezze esteriori, il progresso e la capacità di risolvere i problemi che la vita ci pone.

La società è tanto più sana e vitale, quanto più i talenti individuali vengono riconosciuti, sviluppati e messi al servizio degli altri.

I molti problemi che oggi ci affliggono dipendono in buona parte dal fatto che i nostri talenti non sono stati sviluppati, né tanto meno messi al servizio degli altri, ma sono stati mortificati o strumentalizzati da un sistema basato sul tornaconto personale, che ci spinge a lavorare per soddisfare i nostri propri bisogni, anziché quelli degli altri.

Dobbiamo riscoprire i nostri talenti e la gioia di fare quello per cui siamo nati, sapendo che la salute di una comunità di persone che vivono e lavorano insieme è tanto più grande, quanto più i suoi componenti si prendono cura gli uni degli altri mettendo a disposizione di tutti la propria ricchezza e facendo ciò per cui si sentono portati.

 

Nel suo libro Nati per comprare (Apogeo editore) la sociologa americana Juliet Schor mette in guardia rispetto ai pericoli del crescente diffondersi di conformismo e consumismo tra gli adolescenti degli Stati Uniti: «Siamo diventati una nazione che non ha più la priorità di insegnare ai propri figli a crescere bene socialmente, intellettualmente e spiritualmente, ma ha come obiettivo principale l’educazione al consumo. Una ricerca sui giovani di settanta città in oltre quindici paesi mostra che il 70% degli adolescenti americani desidera diventare ricco, una percentuale più alta che in qualsiasi altro paese del mondo eccetto l’India, dove i risultati sono identici. Il 61% desidera diventare famoso. L’America è il paese con il più alto numero di bambini che credono che gli abiti e le firme descrivano la loro personalità e definiscano il loro status sociale. I bambini americani sono i più attratti dalla marca di quelli di qualsiasi altro paese al mondo; gli esperti li descrivono come sempre più “vincolati al logo” e contemporaneamente sono aumentati i segnali di sofferenza tra i bambini. Gli indici di obesità sono a livelli epidemici. Le diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività sono aumentate drammaticamente, e un numero record di bambini assume farmaci per migliorare l’autocontrollo e la concentrazione. Cominciano ad apparire testimonianze aneddotiche sulla dipendenza dall’elettronica: videogame, Internet e giochi online. Le molestie e il bullismo sono fenomeni che imperversano nelle scuole, con nuove protagoniste, le “alpha-girl”, ragazzine leader all’interno di gruppi femminili di adolescenti.» (pag. 14)

Questa situazione – come spiega più avanti la Schor – è in buona misura effetto delle strategie di marketing delle grandi industrie, che sanno bene come far leva sui desideri dei bambini e degli adolescenti per spingere i genitori a mettere mano al portafoglio. Ma questo atteggiamento consumistico che si sta diffondendo tra i giovanissimi è solo la conseguenza di un marketing ben congegnato, o ci sono altri fattori che contribuiscono a creare questa situazione? Come far fronte a questo fenomeno, che coinvolge le famiglie anche quando i genitori tentano di opporsi, e che ha importanti conseguenze oltre che sullo sviluppo dell’infanzia anche su tutto lo sviluppo sociale ed economico di un paese? Solo considerando la questione da una prospettiva ampia e complessa sarà possibile aiutare le nuove generazioni ad affrontare le tentazioni del consumo in tutte le sue forme. Vediamo come.

L’essere umano, in quanto ha dei bisogni, è un consumatore. Ci sono bisogni legati alla vita del corpo (chiamati solitamente «primari») come il cibo, le bevande, i vestiti, il riposo, ecc. bisogni legati alla vita affettiva (tra cui il bisogno del Bello), bisogni morali (il bisogno del Buono) e bisogni conoscitivi (bisogno del Vero). Questi ultimi non trovano il loro naturale soddisfacimento nella sfera economica, nella quale si scambiano beni di consumo contro denaro, ma nella sfera relazionale attiva, in quella artistica e in quella culturale.

La soddisfazione di un bisogno dipende dal fatto che qualcuno sviluppi l’attività corrispondente ad esso: il consumo è possibile se qualcuno produce, il bisogno affettivo viene soddisfatto se qualcuno ci dimostra amore, il senso estetico viene soddisfatto dalla produzione artistica in senso lato, la sete di conoscenza viene spenta solo se dei ricercatori sono in grado di comunicarci risultati significativi di una seria ricerca scientifica, le esigenze della vita morale vengono soddisfatte da azioni buone. Chi poi lavora attivamente per soddisfare un qualche bisogno di altri può trovare in tale attività un ulteriore fonte di soddisfazione. Le soddisfazioni che noi possiamo avere nella vita sono cioè di due generi opposti e complementari: quelle da «consumatori», quando a fronte di una domanda vediamo soddisfatti i nostri bisogni grazie al lavoro altrui, e quelle da «produttori», quando per mezzo della nostra attività possiamo soddisfare i bisogni degli altri. La nostra vita è tanto più equilibrata quanto più possiamo in uguale misura da un lato trovare soddisfazione ai nostri bisogni, dall’altro offrire soddisfazione ai bisogni dei nostri simili. Dobbiamo cioè poterci sperimentare oltre che come consumatori anche come membri attivi all’interno della nostra comunità, dobbiamo poter lavorare per il soddisfacimento dei bisogni di altri vedendoci riconosciuti e apprezzati per questo.

Abbiamo così visto che ci sono tre diversi tipi di bisogni (quelli del corpo, quelli relazionali – o dell’anima – e quelli conoscitivi – o dello spirito), e in relazione ad essi le due sfere della produzione e del consumo, del dare e del ricevere. La cultura materialista ed egocentrica che si è affermata in occidente ci ha educato a pensare ed agire secondo la logica del tornaconto personale, abituandoci inoltre, negli ultimi decenni, a pensare al futuro come minaccia e provocando così un forte sbilanciamento verso i consumi, verso il prendere per sé il più possibile in previsione del peggio, aumentando così le problematiche sociali ed economiche che ci affliggono.

Le cause di ciò non sono da ricercare solo in quanto è successo negli ultimi anni, ma in tutto quello che l’umanità occidentale ha vissuto nell’epoca moderna, all’incirca dal ‘500 fino ai giorni nostri. Per un’analisi spregiudicata e obiettiva della nostra attuale situazione dovremmo ad esempio osservare come la creazione del denaro sia stata affidata fin dal Seicento dai regnanti alla casta dei banchieri, come l’economia politica sia stata dominata fin dal Settecento dall’utilitarismo, come la rivoluzione industriale sia sfociata, con il taylorismo prima e il fordismo poi, in forme di lavoro alienato molto sofisticate, come gli ideali di fraternità, uguaglianza e libertà proclamati dalla rivoluzione francese stiano ancora aspettando di potersi affermare, come il modello americano di sviluppo materiale fondato sulla competizione e sul primato abbia influenzato tutta la nostra cultura, mortificando sistematicamente e in modo deliberato quanto di meglio si manifestava sia in campo culturale che economico e alimentando i conflitti a tutti i livelli. Applicandoci ad uno studio spregiudicato della storia economica, politica e culturale dell’epoca moderna potremmo comprendere da dove viene il malsano desiderio oggi tanto diffuso di eliminare la fatica, l’impegno, la responsabilità, e d’altro lato dove affondi le sue radici la ricerca dell’uomo occidentale del proprio benessere, delle comodità, dei privilegi esclusivi, del potere, ricerca dalla quale hanno origine molti dei nostri mali sociali.

In ogni caso, per intervenire efficacemente, si possono anche lasciare da parte le cause storiche economiche, politiche e culturali della questione qui considerata, per limitarsi solo agli aspetti pratici di essa. A questo scopo è sufficiente osservare come l’educazione e la cultura degli ultimi trent’anni abbiano minato profondamente la volontà dei giovani, spingendoli a considerare la fatica, l’impegno, la responsabilità come sgradevoli imposizioni, anziché come fondamento di qualsiasi conquista personale significativa. Consideriamo ad esempio la scuola dell’obbligo, nella quale è quasi del tutto bandita ogni libertà di apprendimento. In essa bambini e giovani vengono costretti a studiare per anni materie con le quali non hanno alcun rapporto vivente, con la scusa che tutto ciò sia fatto per il loro bene futuro. Oppure guardiamo come la vita di appartamento delle grandi città unita alla minaccia di un ambiente sociale sempre meno sicuro abbia allontanato i bambini dalla natura, dal gioco di strada, dall’incontro con le realtà lavorative più diverse, per costringerlo a passare il suo tempo circondato da giocattoli di plastica, da spettacoli televisivi, da videogiochi, oppure scarrozzato a destra e a sinistra da un corso di danza a uno di musica, da una palestra a un campo di calcio, e si capirà come la risultante di tutti questi elementi congiunti, insieme all’indebolimento della volontà, sia la perdita della capacità d’intuizione, della fantasia, dell’entusiasmo e dell’iniziativa che stanno alla base di qualsiasi realizzazione significativa. Non c’è perciò da stupirsi se una gioventù privata delle forze migliori, incapace già dai primi anni di vita di concepire idee originali e di realizzarle a causa dello stile di vita che gli abbiamo inflitto, non essendo più in grado di produrre alcunché di significativo si lasci sedurre dalle più diverse proposte di consumo, dal videogioco alla droga, dalla merendina all’ultimo film di successo, cose queste che non comportano né fatica né responsabilità e che di conseguenza non portano mai a un accrescimento delle competenze o della consapevolezza e tanto meno ad una soddisfazione profonda dei propri bisogni. In questo modo la ricchezza che ognuno di noi ha in sé – vale a dire il proprio talento –, che se riconosciuto e sviluppato potrebbe essere offerto agli altri  e costituire la ricchezza della comunità, cessa di essere momento costitutivo della nostra vita sociale e si riduce a momento privato, qualcosa a cui nella maggioranza dei casi abbiamo il diritto e la possibilità di dedicarci solo nel tempo libero.

È così che negli ultimi decenni, senza che ce ne rendessimo chiaramente conto, ci siamo a poco a poco abituati a vivere una vita da consumatori. Questa abitudine lascia insoddisfatto un bisogno fondamentale dell’essere umano che è quello di trasformare il mondo che lo circonda a vantaggio di tutti sulla base delle sue conoscenze, delle sue intuizioni e della sua fantasia, per soddisfare i bisogni della propria comunità. Chi ci vuole consumatori ha appunto organizzato le cose in modo che le conoscenze disponibili non siano quelle che servono a cambiare le regole del gioco imposto, così che la fantasia si riduca a semplice valvola di sfogo grazie alla quale potere evadere dal quotidiano e che l’attività creativa sia relegata alla sfera privata del tempo libero senza alcuna efficacia sulla sfera sociale. In questo modo siamo stati catturati in un circolo vizioso dal quale è sempre più difficile uscire: l’abitudine al consumo fisico, psichico e mentale genera pigrizia, riduce la capacità di osservazione e di concentrazione, indebolisce la facoltà creativa e quella intuitiva (che si fondano essenzialmente sulla libera attività), spingendo a ricercare sempre di nuovo esperienze piacevoli che non richiedano applicazione, sforzo o responsabilità e non comportino alcun rischio. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi oggi: bambini nervosi, iperattivi, incapaci di concentrazione e adulti dalla volontà debole in perenne conflitto tra di loro, capaci di sognare a occhi aperti, ma non di creare nuove regole del gioco.

Tutto quanto viene riportato dalla Schor quindi non è altro che l’effetto ultimo di una cultura e di un’educazione che non possono – o peggio ancora non vogliono – fare in modo che la ricchezza di cui ognuno di noi è portatore possa andare a vantaggio della comunità. Fino a quando non ci renderemo conto che il consumismo di cui soffriamo oggi è la risultante di una vita interiore costruita fin dalla più tenera età sulla ricerca di stimoli esteriori, incapace di darsi da sé lo scopo del proprio agire, non potremo comprendere quello che stanno vivendo bambini e giovani oggi  e che desta in noi tante preoccupazioni. Solo quando avremo riconosciuto come il consumismo, sia quello materiale che quello psichico e mentale, indebolisce la volontà, abituando all’assorbimento e alla risonanza passivi di ciò che non è frutto della nostra propria attività, per ricominciare a dedicarci con impegno e senso di responsabilità a qualcosa che ci appassiona e che può avere significato per la nostra comunità, sapendo che i frutti del nostro lavoro si vedranno forse solo in un lontano futuro, potremo aiutare davvero le nuove generazioni a ritrovare l’entusiasmo e l’intraprendenza necessari per ciò che fa di loro degli attori consapevoli del rinnovamento sociale di cui abbiamo urgente bisogno.

Fabio Alessandri

 

Non l’ho fatto apposta!

Due bambini a scuola giocano insieme. Uno rotea su se stesso, tiene una corda per saltare a un’estremità e la fa girare, l’altro a ogni giro la salta. A un certo punto quello che gira alza la corda a mezzo metro da terra, così che il suo compagno non riesce a saltarla e il manico di legno della corda lo colpisce su una gamba. «Ma se la alzi così non vale, mi hai fatto male!» si lamenta il bambino offeso con le lacrime agli occhi. «Non l’ho fatto apposta», risponde l’altro con un sorriso soddisfatto. Comincia così un litigio, nel quale il bambino che girava la corda, per rispondere alle proteste del compagno, non fa altro che ripetere di non averlo fatto apposta. Quando ormai la discussione sta per degenerare in rissa il loro maestro, che ha assistito alla scena, interviene e rivolgendosi al bambino che girava la corda dice: «Che tu l’abbia fatto apposta o meno non ha alcuna importanza, quello che conta è se sei contento di avergli fatto male e come girerai la corda la volta prossima!» immediatamente il litigio cessa e i due ricominciano a giocare.

Dammi il flauto!

Lezione di musica in quarta elementare. L’insegnante ha portato un flauto nuovo per ogni bambino e li distribuisce agli alunni. L’entusiasmo è grande e ognuno soffia nel suo strumento per provarlo. Finita la distribuzione l’insegnante chiede ripetutamente il silenzio. A poco a poco tutti i bambini smettono di suonare, tranne Silvia, che continua indisturbata a soffiare con energia nel suo flauto. L’insegnante le dice:  «Silvia, dammi il flauto.» Lei domanda: «Perché?» L’insegnante risponde: «Quando ti ho dato il flauto mi hai chiesto forse perché te lo davo?» «No.» Risponde Silvia. «Bene, allora dammi il flauto.» La bambina, disarmata di fronte all’osservazione del maestro, consegna in silenzio lo strumento e la lezione di musica può iniziare.

 


Il signor Si, il più educato di tutti

 

Ho scoperto di recente chi è la persona più educata del mondo. Si tratta di un tale che proprio grazie al suo comportamento esemplare viene indicato di continuo dalla stragrande maggioranza delle persone che conosco come modello degno di essere imitato soprattutto dai bambini. È risaputo che una buona educazione richiede, se non addirittura esige, rispetto e considerazione, perciò il richiamo a questo campione di buone maniere risuona di continuo da ogni lato nelle grandi città come nelle campagne, nei villaggi, nei paesi grandi e piccoli, in pianura e in collina, al mare e ai monti dalle bocche di educatori preoccupati di offire immagini esemplari ai loro protetti. Basta fare una passeggiata in una qualsiasi località frequentata da adulti e bambini per sentire descrivere in continuazione tutte le cose lodevoli compiute da questo illustre signore.

Anch’io mi stupisco sempre di nuovo di quest’uomo così compito e ammodo, di cui si racconta che «Si mangia a tavola, Si dice grazie, Si chiede scusa, Si dice “per favore”, Si cammina senza correre, Si mette in ordine prima di andare fuori», e mi domando se i suoi genitori abbiano ottenuto questi straordinari risultati educativi anche loro raccontando di qualche signore tanto bene educato, oppure dicendo al loro figliolo semplicemente «mangia a tavola, dì “per favore”, metti in ordine prima di uscire». Se così fosse bisognerebbe farlo sapere al più presto a tutti quelli che continuano a raccontare quanto è bravo il signor Si, così forse la smetterebbero una buona volta di fare esempi che i bambini probabilmente non hanno nessuna voglia di imitare.

Fabio Alessandri

L’erba voglio

Una volta, quando i bambini dicevano «Voglio questo o voglio quello» si sentivano rispondere «L’erba voglio non cresce neppure nel giardino del re». Oggi al contrario quando dicono per esempio «Voglio l’acqua», li si invita ad aggiungere le parole «per favore» per ottenere quello che desiderano. Capita così di sentire bambini che esclamano «Acqua per favore!» – senza neanche utilizzare il verbo “volere” – che vengono prontamente serviti, come se un tal modo di esprimersi fosse quanto di meglio un adulto può aspettarsi da un bambino.

Se ci si sofferma un poco a riflettere su questo fatto ci si può rendere conto che una simile dinamica contribuisce a formare nei bambini la convinzione che basti pronunciare il nome di ciò che si vuole (“acqua” o “pane” o altro ancora) per vedere soddisfatte le proprie esigenze, abituando-li ad un atteggiamento di comando che ha conseguenze indesiderabili.

La pacifica convivenza tra gli uomini si fonda sulla possibilità di agire liberamente nel pieno rispetto delle volontà altrui. Questo in altri termini significa rapportarsi agli altri imparando a chiedere o ad offrire loro ciò di cui si ha bisogno senza imposizioni né strumentalizzazioni di alcun genere. Quando, invece di chiedere, si sviluppa nei bambini l’abitudine a essere serviti senza porre alcuna domanda, si manifesta sempre in loro un atteggiamento dittatoriale, la cui conseguenza è quella di far scomparire l’ascolto, il rispetto, la gratitudine, la meraviglia in un’età in cui si acquisiscono abitudini sociali che si porteranno dietro tutta la vita e che sono tanto più difficili da modificare quanto più passano gli anni. Per questo motivo è di fondamentale importanza (oggi più che mai) insegnare ai bambini a chiedere le cose con proprietà di linguaggio e con cortesia, imparando anche a ricevere delle risposte negative quando le circostanze non permettono di ottenere ciò che si desidera.

Ci sarebbe poi anche da chiedersi in che relazione stiano questi fatti con l’idea oggi suggerita da tutta una certa cultura di massa secondo cui chiedere é segno di debolezza, e perciò sconveniente e vergognoso. “L’uomo che non deve chiedere mai” proposto dalla pubblicità di un famoso profumo ha qualche rapporto con il genitore che non è capace di insegnare al proprio figlio a dire “Mi passi un po’ di pane per favore”? Da cosa ci viene la confusione tra il dedicarsi all’infanzia con cognizione di causa e l’arrendevolezza che sottomette l’adulto al capriccio del bambino?

Vediamo così come il superamento della logica espressa dal motto “L’erba voglio non cresce neppure nel giardino del re”, con la quale si mortificava la volontà infantile, ha lasciato oggi il campo a un nuovo errore pedagogico. Un’osservazione spassionata mostra che bambini a cui non è stato insegnato a chiedere con cortesia e in termini espliciti ciò che desiderano e che sono abituati ad essere soddisfatti all’affermazione imperiosa della loro volontà tendono a rivolgere l’attenzione solo a se stessi, considerando persone e cose in modo strumentale – forse proprio come la maggior parte degli adulti che hanno intorno oggi. Il problema in verità non è del bambino, ma dell’adulto che lo educa, in un’epoca in cui le relazioni umane sono fatte di sfruttamento e di strumentalizzazione anziché di comprensione e di aiuto reciproco. Tutto questo si esprime nel linguaggio che usiamo quotidianamente; dobbiamo perciò fare attenzione a quel che diciamo e alle abitudini di pensiero che creiamo nei bambini attraverso l’uso delle parole. La parola ha un potere straordinario ed è nostro compito farne uno strumento consapevole e responsabile nell’educazione dell’infanzia. Torniamo perciò a considerare dove cresca l’erba voglio e quanto sia importante che continui a crescere, affinché domani i nostri bambini abbiano una volontà forte e salda nel realizzare quanto ancora c’è da fare per rendere migliore questo nostro mondo.

Fabio Alessandri

Salvare l’infanzia

 

Memorandum per una pedagogia elementare dell’azione

di Peter Guttenhöfer [1]

    Sulla nostra bella Terra la natura è in pericolo. Piante e animali spariscono dal Pianeta e il disordine climatico è un argomento sulla bocca di tutti. C’è però anche qualcos’altro in pericolo: l’infanzia. In tutti i Paesi del mondo la pressione sui bambini si fa sempre più forte atttraverso una scolarizzazione sempre più  precoce, l’apprendimento della lettura a tre anni, i programmi statali uniformati, l’inasprimento della concorrenza fra bambini, gli esami, un insegnamento intellettualizzato, poco movimento, nessuna arte, nessun gioco. Nelle case troviamo famiglie che vanno in pezzi, genitori stressati, disoccupazione, povertà, bambini lasciati soli davanti alla televisione e al computer. Anche i figli dei ricchi sono poveri!

    Facciamo ciò che è più che mai necessario per preservare l’infanzia: regaliamo ai nostri bambini almeno dieci anni di infanzia. Così soltanto potranno avere, da adulti, sufficiente forza di fantasia per plasmare la vita sulla Terra in modo nuovo e meglio di noi. Ne va infatti della Terra, delle forze giovanili della Terra.

 

    La scuola deve essere pensata a nuovo! Una scuola nella quale i bambini possano vivere, giocare e lavorare in modo che la loro naturale capacità di immaginazione possa trasformarsi in fantasia creatrice; nella quale possano vivere senza subire pressioni e senza paure, in modo che nell’apprendere siano felici e ne traggano salute.

  1. L’infanzia messa a rischio attraverso la scuola

La civilizzazione che muovendo dall’Europa occidentale ha afferrato negli ultimi secoli l’intera umanità è ostile all’infanzia. Lo mostra in tutta la sua acutezza la vita nelle città: in ogni movimento non sorvegliato che il bambino compie c’è il rischio della vita. È proibito giocare. L’unità di misura di tutte le cose è la libera realizzazione individuale dell’adulto nell’ambito delle condizioni materiali dell’esistenza terrena. Infanzia e vecchiaia non sono altro che pesanti, inevitabili effetti collaterali.

Dall’infanzia oggi si vuole trarre profitto. Ai primi segni di una capacità di rappresentazione, l’organizza-zione statale interviene con l’obbligo scolastico. In tutto il mondo è evidente la tendenza ad anticipare tale obbligo, fino a portarlo all’inizio del quinto anno di vita. Un calcolo economico costi-profitti governa i processi della formazione, sia riguardo all’organizzazione che ai contenuti. È risaputo che nella maggior parte dei Paesi del mondo i docenti sono sottopagati, così che all’infelicità dei bambini si aggiunge l’infelicità degli insegnanti. Ciò contribuisce al crearsi di quella antipatia di fondo che sussiste tra maestri ed allievi.

Il bambino viene considerato ancor sempre quale oggetto della socializzazione, non quale soggetto della propria autoeducazione. Non viene ancora riconosciuto quale portatore del proprio diritto a una libera educazione e a un libero sviluppo, bensì quale portatore del dovere di frequentare la scuola. In realtà il dovere è degli adulti nei suoi confronti; con la nascita il bambino acquisisce i propri diritti. La Convenzione  dei Diritti dell’Infanzia delle Nazioni Unite, sottoscritta nel 1989 da quasi tutti gli Stati della Terra, è un’espressione di tale nuova coscienza; alla realizzazione degli ideali ivi formulati possiamo però avvicinarci soltanto se in tutta serietà riconosciamo ciò che disse Janusz Korczak: “Il bambino non diventa uomo soltanto da grande, egli è un uomo!”

L’attuale discussione sugli abusi di cui sono oggetto i bambini ha portato alla luce come nel singolo fenomeno venga alla superficie in tutta la sua bruttezza uno strato profondo dell’esistenza, nel quale la vita non purificata degli istinti e l’egoismo, insieme all’istinto fondamentale della civiltà moderna di doversi impossessare di ogni cosa, formano un miscuglio pericoloso. Gli effetti di tale strato profondo sono, tra gli altri, la pedagogia dispotica, lo stile degli edifici scolastici, l’ostilità nei confronti del movimento che si manifesta nella programmazione delle lezioni. In una parola: il normale svolgimento della «scuola».

Riconoscere il bambino quale soggetto della sua autoeducazione è piuttosto difficile, ma è un’idea che si sta facendo strada nell’umanità. È necessario un successivo passo nella trasformazione, la cui direzione risulta dalla seguente frase di Rudolf Steiner: “Ogni educazione è autoeducazione e come insegnanti ed educatori noi siamo in verità soltanto l’ambiente circostante del bambino che sta educando se stesso.” Configurare tale ambiente in modo corrispondente alle esigenze di uno sviluppo fecondo del bambino richiederebbe da parte degli adulti una profonda trasformazione delle loro abitudini di vita e di pensiero. La civiltà dovrebbe venire rimodellata dalle fondamenta.

Il punto di partenza è il seguente principio: maestro e bambino lavorano e imparano insieme. I bambini del giorno d’oggi non accettano più il predicatore noioso e altrettanto poco possono accettare,  in virtù dei programmi di insegnamento e del loro svolgimento dentro un’aula, di venire isolati per giornate intere dalla vita vera e propria. Nel migliore dei casi – o nel peggiore – si sottomettono. A partire dai dodici anni cominciano a difendersi. I problemi che ne derivano vengono chiamati dagli educatori «problemi di disciplina». La verità è che il bambino per sua natura vuole essere attivo; le scuole però, così come sono oggi, impediscono ai bambini di essere attivi in modo produttivo.

La volontà del bambino è rivolta all’attività; insegnanti ed educatori pertanto devono far derivare da ciò il programma della loro individuale autoeducazione. La pedagogia Waldorf fondata da Rudolf Steiner si fonda in origine sul fatto che il maestro è una persona che apprende e non necessariamente un pedagogo specialista di formazione accademica. Oggi possiamo aggiungere: il maestro deve essere un lavoratore. In altri termini, perché mai le due categorie di persone che lavorano in modo produttivo, l’agricoltore e l’artigiano, oggi sono esclusi dal processo educativo? Il tipico insegnante di oggi è di fatto una persona che viene esonerata dal lavoro produttivo a spese della comunità, per potersi dedicare totalmente all’istruzione dei bambini. Anche i bambini stessi sono svincolati da qualsiasi lavoro, al fine di essere liberi per lo studio. Negli attuali Paesi benestanti del mondo tale situazione si deve protrarre idealmente fino al venticinquesimo o persino al trentesimo anno di età. Che le economie dei diversi paesi non possano sostenere una simile cosa diventa a poco a poco evidente. Che ciò contribuisca soprattutto alla rovina della Terra è però chiaro solo a pochi.

La scuola oggi è perciò il risultato del divenire della cultura centroeuropea degli ultimi 250 anni, che si è tradotto nella frantumazione dei processi vitali. Questa frantumazione si mostra particolarmente dolorosa nel fatto che lavoro e apprendimento,  gioco e  lavoro, artigianato e  formazione, infanzia e società industriale, civilizzazione urbana e cultura rurale si sono completamente separati. La scuola oggi è un luogo dove il bambino viene estraniato dalla vita. Le sue proposte sono artificiose e la cosiddetta «motivazione» degli allievi spesso non è altro che la coercizione che deriva loro dagli esami e dai titoli ad essi collegati. Tutto ciò è ostile all’infanzia, poiché il bambino è un essere del presente, che sperimenta il senso della sua esistenza direttamente in modo spirituale-sensibile e non lo ricava da un futuro immaginato, né da una qualche rappresentazione relativa all’acquisizione di competenze.

  1. Trasformazione della scuola

Come dev’essere dunque la scuola, se vuole presentare un ambiente adeguato al bambino di oggi? Novalis ha indicato la direzione nel suo Frammento «Pädagogik»:

“L’educazione dei bambini, così come la formazione di un apprendista, non avviene per educazione diretta, ma nel lasciarli partecipare gradualmente alle occupazioni degli adulti.”

Gli adulti che educano devono essere occupati in un lavoro! Non però nell’educazione diretta dei bambini, ma in quelle attività che stanno a fondamento della vita e che la plasmano. Ad esse appartengono naturalmente anche lo scrivere, il leggere, il far di conto e il cantare. E come impara l’«apprendista»? Nel primo settennio tramite l’imitazione, nel secondo tramite il fare seguendo un modello. Con ciò sorgono immagini di adulti impegnati in attività sensate che vale la pena di imitare e che possono concretamente essere imitati e presi a modello, perché si manifestano in attività visibili e in movimenti delle braccia e delle gambe guidati dalla ragione. E il genio del bambino, che vive nell’ambito di tale attività, consiste nel portare avanti la propria autoeducazione attraverso l’imitazione e il fare seguendo un modello. Tutto questo noi lo chiamiamo gioco.

Le occupazioni che si possono imitare si trovano soprattutto nell’agricoltura e nel giardinaggio, nell’artigianato e nell’economia domestica, vale a dire in quegli ambiti nei quali, per mezzo della trasformazione della sostanza, vengono prodotti i generi di prima necessità; occupazioni che sfortunatamente non sono entrate in quel campo educativo che ha nome «scuola». Rudolf Steiner ha già fatto un primo passo, introducendoli nello spazio pedagogico; questo costituisce oggi una delle caratteristiche della pedagogia Waldorf. E l’umanità attuale, proprio in tali ambiti, sta prendendo sempre più coscienza del fatto che la concezione riduzionistica del mondo e il tendere egoisticamente al profitto conducono alla distruzione dei fondamenti della vita. Si può riconoscere ciò dagli effetti catastrofici che l’agricoltura industrializzata ha sui terreni e sui paesaggi, sulle api, sulla qualità degli alimenti e così via; ce lo mostrano la sofferenza degli animali, il morire dei boschi.

La distruzione dell’ecosistema e i pericoli derivanti dai mutamenti climatici oggi ci risvegliano ed esigono un nuovo modo di agire. Qui le idee convergono: gli adulti si volgono nuovamente alla Terra, smettono di rincorrere il profitto e non seguono più un comportamento animalesco di massa; l’attenzione nei riguardi degli altri esseri viventi, disposti a servirci, diventa per loro una guida all’azione. E nel far questo portano con sé i bambini! Non li escludono chiudendoli negli asili, nei nidi, nelle scuole, ma lavorano con loro, mentre i piccoli giocano e i più grandi “partecipano poco alla volta alle occupazioni degli adulti”, come ha scritto Novalis. Allora sentiamo il bisogno di un nuovo «curriculum»; immaginiamo una nuova valutazione delle materie, divise in materie principali e secondarie, così che le «vacche sacre» universalmente riconosciute della corretta padronanza della lingua madre, della letteratura nazionale e della matematica vengano poste allo stesso livello di nuove materie principali quali il giardinaggio e l’artigianato.

Luogo ideale per un simile ambiente dedicato all’educazione sarebbe ovviamente il villaggio agricolo. È naturale che esso dovrebbe in ogni caso venire radicalmente rimodellato e configurato a nuovo, se deve rappresentare un «ambiente completo» (Goethe, La provincia pedagogica) per il bambino che educa se stesso e al contempo nutrire le persone che vivono e lavorano in esso [2]. Non si intende con ciò la «fattoria scolastica», ma una comunità di persone che lavorano, le quali per mezzo della coltivazione agricola biodinamica vogliono dedicarsi alla riconquista delle forze giovanili della Terra. Non dobbiamo dunque lavorare per l’educazione diretta del bambino, che Novalis sconsiglia, ma per coinvolgerlo in un ambiente quotidiano pieno di attività, permettendogli di partecipare alla corrente di volontà degli adulti. Anche l’aula scolastica fa parte di questo ambiente, ma in forma modificata. Spazi esterni ed interni formano insieme un ambiente completo. Come ciò possa venire allestito nei particolari dipende da innumerevoli condizioni particolari e non può perciò venire discusso in questa sede.

È chiaro che in questo scritto si può solo accennare alla direzione in cui bisognerebbe immaginare e perseguire tale ideale. Sarebbe però un’espressione di cecità nei confronti della realtà pensare che l’agricoltura biodinamica possa salvare anche la pedagogia. Due pensieri ci conducono avanti:

1. La fattoria sarebbe certo un ambiente ideale, ma non è condizione necessaria. La scuola infatti si è sviluppata anzitutto in ambienti cittadini e perciò deve essenzialmente venir trasformata all’interno della civiltà cittadina. Quest’ultima però, come si è detto, deve essere del tutto riformata, e questo può riuscire solo attraverso un genere completamente nuovo di educazione dei bambini e certamente solo con un processo della durata di decenni, se non addirittura di secoli.

2. Nelle attuali condizioni politiche, sociali e culturali della maggior parte degli Stati della Terra, si può pensare a un cambiamento efficace del paradigma pedagogico solo se si è disposti a immaginare su scala ridotta la trasformazione della scuola in un luogo di apprendimento nel quale i bambini possano sviluppare crescendo la voglia di lavorare per un futuro migliore.

  1. Piccolo è bello (Small is Beautiful)

Ciò che il bambino apprende nei suoi primi anni e il modo in cui lo apprende sono di particolare importanza per dar forma al corso della vita. Nel presente scritto vogliamo tralasciare considerazioni sui primi tre anni di vita poiché auguriamo ad ogni bambino sulla Terra di poter crescere almeno in quel primo periodo fra le cure di una famiglia. Che centinaia di migliaia di bambini vedano insoddisfatto questo loro desiderio costituisce un problema che in questa sede non può venire trattato. Qui si tratta di elaborare l’immagine di un luogo di apprendimento nel quale il bambino possa vivere, imparare e prosperare in quel periodo della sua vita che va dai quattro ai dieci anni; lo schizzo di una scuola nella quale il periodo di tre anni di asilo e quattro di scuola formino un continuum di sette anni. Alla fine di questa fase di sviluppo il bambino ha raggiunto uno stadio nel quale, nel senso della moderna ricerca in ambito di salutogenesi, dispone di un elementare «equipaggiamento di base», formato dalle facoltà della coerenza (essere animicamente collegati con il mondo) e della resilienza (forza di rispondere affermativamente agli ostacoli e di padroneggiarli). Questo punto dello sviluppo infantile viene indicato nell’antropologia antroposofica con l’immagine del «Rubicone», riferendosi al fatto che il bambino ha per così dire edificato la propria individuale salute biologica, animica e spirituale, che sarà per lui una sorgente di forze per superare le crisi degli anni seguenti e della vita in genere.

Se dunque il bambino, almeno fino al momento che abbiamo qui caratterizzato, si sviluppa in un’atmosfera che rende possibile il “libero dispiegamento della sua personalità” – come richiedono le dichiarazioni dei diritti dell’infanzia dei paesi democratici –, si troverà poi equipaggiato per le sfide future. Nel periodo che abbraccia i tre anni di asilo e i quattro anni di scuola i processi di apprendimento non devono ancora venire regolati da norme di prestazione dettate dallo Stato; ci si può immaginare che i bambini, mediante una preparazione adeguata, raggiunto il quarto anno scolastico vengano resi idonei alle norme statali, per quel che riguarda le loro capacità di apprendimento, così che siano in grado di passare a una qualsiasi altra scuola possibilmente senza problemi[3]. In questo modo anche i primi tre anni del periodo scolastico, come i tre che precedono la scuola, potrebbero venire configurati in modo del tutto libero.

Il periodo di sette anni che prendiamo in considerazione in questo contesto dovrebbe dunque venire strutturato del tutto secondo prospettive pedagogiche e di psicologia dello sviluppo. In particolare nella fase di passaggio dall’asilo alla scuola possono venire prese in considerazione caratteristiche individuali dello sviluppo di singoli bambini. Si verrebbe così a creare una struttura per mezzo della quale i problemi della scolarizzazione precoce, verso cui c’è in tutto il mondo una forte spinta, possano venire almeno un po’ mitigati. L’obbligo scolastico richiesto verrebbe così soddisfatto, ma i provvedimenti pedagogici nel singolo caso si potrebbero determinare liberamente.

In molti luoghi della Terra, dove le condizioni sociali, economiche o culturali non sono favorevoli alla creazione di un sistema scolastico statale articolato in elementari, medie e superiori, queste piccole «scuole» si potrebbero allestire con mezzi relativamente esigui; non tutti gli insegnanti e gli educatori dovrebbero avere una formazione accademica. In parte sarebbero anzi necessarie competenze del tutto diverse da quelle che si acquisiscono nelle università e nei seminari di formazione degli insegnanti. Non bisogna pensare a edifici scolastici costosi, né a un grande collegio docenti che si sfinisce con conflitti e dinamiche di gruppo caratteristiche del nostro tempo. La gestione economica, l’organizzazione e l’amministrazione potrebbero essere trasparenti e comprensibili. In breve: “Piccolo è bello” – secondo il titolo del libro di E.F. Schumacher (Small is beautiful) pubblicato nel 1973 e famoso in tutto il mondo.

In alcuni paesi – soprattutto dell’emisfero meridionale – l’attuale politica della formazione non fa che proseguire ciò che fece il colonialismo, oggi ritenuto superato: impiantare il modo di pensare e di vivere europeo/americano nelle anime giovani di popoli che, se di fatto sono liberi politicamente, spesso sono gravemente scossi nella loro identità. Le elite di quei popoli mandano i loro figli alle scuole internazionali, oppure nei collegi dei loro ex «padroni»; le scuole elementari invece vengono allestite in modo del tutto insufficiente e spesso determinano i contenuti del loro insegnamento secondo programmi scolastici europei i quali – come è risaputo – vengono determinati nel senso di una concezione del mondo che è allo stesso tempo lontana dalla moderna conoscenza scientifica, quanto dal vivente patrimonio di saggezza tradizionale ancora presente nelle culture dei diversi popoli. È possibile dare un contributo alla conquista di una nuova identità solo per mezzo della riflessione sulle proprie radici culturali e religiose, sulla propria lingua, sul paesaggio circostante e così via. Nelle condizioni attuali però una simile cosa si può immaginare solo per i primi anni di scuola, se si vuole evitare di entrare in conflitto aperto con le autorità responsabili dell’educazione nei diversi paesi. Negli anni della scuola superiore infatti l’obiettivo diventa sempre di più l’adeguamento degli allievi al sistema sociale dominante, all’interno del quale essi devono crescere. Di ciò si devono preoccupare le autorità statali. Anche questi pensieri contribuiscono a farci immaginare una scuola di piccole dimensioni.

  1. Scuola di Base (Basic School)

Nell’arco dei sette anni considerati si tratta perciò di rendere possibile l’infanzia, edificare la salute individuale, gettare le basi per una formazione generale ed esercitarsi in un lavoro. La pedagogia Waldorf, che da novant’anni anni va diffondendosi su tutto il pianeta, lavora per rendere possibile l’assunzione di tale compito a partire da presupposti antropologici e metodologici fondati sulla visione antroposofica dell’essere umano di Rudolf Steiner. In essa, accanto allo sviluppo dell’intelligenza e alla cura per l’animo del bambino, viene dedicata particolare attenzione alla formazione della sua volontà. Nel senso della pedagogia elementare dell’azione qui esposta va fatto notare che anche le scuole Waldorf hanno bisogno di un ulteriore sviluppo. Se ci domandiamo quali sono le necessità dei bambini e ci chiediamo di cosa dovranno essere capaci fra trent’anni, veniamo rimandati ai compiti indicati al punto 2.

Modificare i contenuti delle lezioni e i metodi in vigore nelle scuole medie e superiori si scontra con le difficoltà accennate. Ciò che è possibile modificare da subito sono invece i primi quattro anni di scuola e il periodo dell’asilo.

Tutta la bellezza e la profondità della pedagogia Waldorf si dispiegano già nei primi quattro anni di scuola: gioco e lavoro fluiscono l’uno nell’altro; i contenuti del mondo si manifestano in immagini; bambini e maestro lavorano insieme alla formazione di una comunità di destino, nella quale non domina la concorrenza, ma ci si esercita a prestarsi vicendevolmente aiuto. In sesta classe (a dodici anni) il rapporto del bambino con il mondo e con le altre persone cambia costituzionalmente e si presentano nuovi problemi. La Scuola di Base potrebbe venire prolungata anche fino alla quinta classe, secondo le condizioni e le possibilità legate di volta in volta ai luoghi e alle persone. Per il lavoro a partire dal sesto anno di scuola verrebbero invece determinate linee guida didattiche e metodologiche completamente nuove. A partire da queste considerazioni la Scuola di Base viene pensata in un arco di quattro-cinque anni, che insieme ai tre anni precedenti di asilo costituiscono un percorso complessivo di sette-otto anni.

Abbiamo così descritto una forma di «scuola minima», che rappresenta un’offerta pedagogica completa per  i bambini tra i quattro e i dieci anni. Non si tratta di un frammento di una scuola vera e propria, né «semplicemente» dell’istruzione elementare, ma di un’iniziativa in sé compiuta, vale a dire della realizzazione di un luogo di apprendimento per bambini dell’età indicata, che richiede un impiego di forze e di capitali relativamente esiguo.

La responsabilità di un ulteriore percorso formativo del singolo bambino è solo nelle mani di coloro che ne forniscono i mezzi. Per poter pensare a tale forma di Scuola di Base si deve abbandonare l’idea portata avanti dalle scuole Waldorf di un percorso di dodici anni e domandarsi quali forze e competenze si abbiano a disposizione per affrontare la crisi che investe oggi l’infanzia. Le piccole scuole qui descritte potranno essere i germi per luoghi d’apprendimento completamente nuovi, per la cui rappresentazione dettagliata ci manca oggi la fantasia. Ciò che vogliamo fare è creare isole di salvataggio per l’infanzia e per la capacità di fantasia dell’umanità.


[1] Traduzione di Adele Crippa rIveduta da Fabio Alessandri

[2] Un simile rimodellamento dell’agricoltura, nuovo e radicale, in riferimento alla sana alimentazione, alla sostenibilità ecologica, alla proprietà privata dei terreni, alla tecnicizzazione, alle forme di mercato, è già stato iniziato grazie al movimento dell’agricoltura biodinamica diffuso in tutto il mondo. L’aspirazione a forme di comunità adatte ai tempi trova la sua espressione, fra altre, nella CSA (Community Supported Agricolture).

[3] In molti Paesi c’è persino la possibilità dell’ «home schooling» (educazione parentale) per il periodo della scuola elementare.